Le proposte di riforma del mercato del lavoro avanzate dal ministro Poletti hanno il pregio di indicare una direzione di marcia che mette fine a polemiche sterili e parziali per riaprire una stagione in cui procedere al taglio di quei “lacci e lacciuoli” che tengono il nostro mercato del lavoro in uno stato di profonda arretratezza. I provvedimenti presentati nel decreto legge e nel testo di delega vanno valutati assieme per cogliere le idee di fondo che animano l’azione di governo.
Le polemiche quotidiane si fermano al decreto, in particolare alle misure che attraverso ritocchi al contratto a tempo determinato e all’apprendistato tolgono una parte delle barriere all’entrata nel lavoro. Barriere introdotte da improvvidi provvedimenti degli ultimi governi. Ma il nostro mercato del lavoro non richiede scambi fra maggiori barriere all’entrata e minori freni all’uscita, quanto un cambio complessivo che aumenti tutta la mobilità sul mercato, sia in entrata che in uscita. Occorre, come è giustamente richiamato nella delega, assicurare a tutti i lavoratori (indipendentemente dal contratto di provenienza) un sistema di tutela del reddito e una rete di servizi al lavoro che cambi radicalmente la situazione attuale caratterizzata da politiche passive onerose, e non estese a tutti, e servizi che non sono in grado di occuparsi dell’incrocio domanda-offerta.
Oggi la possibilità di previsione delle imprese è sempre più a tempo determinato. La flessibilità del lavoro e la scelta delle forme contrattuali sono un dato portato da una crisi che ha limitato le possibilità di programmare a medio-lungo periodo e avviato processi di ristrutturazione che cambieranno i rapporti in molti settori dell’industria e dei servizi. In un sistema di imprese come il nostro, caratterizzato da aziende di piccola dimensione, questi cambiamenti sono ancora più amplificati e le politiche territoriali, i contratti sempre più legati alle realtà locali e di impresa per favorire la produttività, sono strumenti indispensabili per sostenere il passaggio a una nuova fase.
La centralità va allora assegnata allo sviluppo dell’Aspi e alla creazione di un’Agenzia nazionale per i servizi al lavoro che, utilizzando le risorse per le politiche attive e passive del lavoro, ridisegni i servizi finalizzandoli al risultato della ricollocazione dei lavoratori. Per rompere un’ideologia conservatrice – che vede convergere le posizioni di parte sia del fonte padronale che delle rappresentanze dei lavoratori – dovremmo porci nell’ottica di ripensare gli strumenti in funzione dei bisogni delle persone. Centrale è la persona che deve entrare o rientrare in un ruolo attivo. Le risorse devono sostenere il reddito e un percorso di ricerca di nuova occupazione che valorizzi le competenze acquisiste e la disponibilità a implementare tali competenze con percorsi formativi finalizzati a un nuovo impiego.
Non c’è tempo per sviluppare nuove reti di servizi, ma occorre mettere in campo subito agenzie pubbliche e private disponibili a essere valutate per i risultati occupazionali acquisisti, cioè sia per efficienza che per efficacia di quanto sono in grado di fare. L’esempio dei servizi al lavoro avviati in Lombardia ormai da alcuni anni può essere una base concreta su cui ridisegnare i servizi al lavoro nazionali mettendo fine a una situazione in cui le tutele a sostegno del lavoro cambiano talvolta da provincia a provincia.
In questo quadro i provvedimenti su contratti a tempo determinato e per l’apprendistato che tante critiche hanno attirato da conservatori di destra e di sinistra perdono di significato. Sono a mio parere un avvio utile per rimettere in moto un mercato bloccato da visioni astratte. Se l’obiettivo è dare occupazione, chiedere solo lavoro di qualità (?!) o un’unica forma contrattuale ricorda la favola di Bertoldo, che condannato all’impiccagione chiede di scegliere lui l’albero a cui essere appeso.
Piuttosto la concretezza della realtà chiede di tutelare tutti, comprese le partite Iva, perché non sono riportabili in forme contrattuali di dipendenza ma chiedono servizi di welfare appositi. Forme invece di schiavismo contemporaneo presenti in settori come la logistica, l’agricoltura e alcuni servizi chiedono interventi radicali e una responsabilità sociale di impresa e rappresentanze maggiormente attente ai diritti delle persone. Si deve quindi avviare la riforma e togliere paletti, fare partire nuove regole e badare che non si riformino regionalismi che ledono i diritti e le tutele previste dalle norme nazionali.
L’apprendistato in fondo non decolla per troppo peso burocratico e perché ogni regione ha un suo modello. Ripensiamolo e, disegnandolo intorno a un giovane che attraverso questo contratto deve acquisire competenze certificabili, potrà essere funzionale per quelle professioni dove l’apprendimento sul lavoro è fondamentale per acquisire tecnica e competenze. Per avviare al lavoro i giovani in banche o nella vendita di beni prevediamo altri contratti di inserimento più vantaggiosi e realistici, mettendo fine a una mistificazione del contratto di apprendistato come contratto generale.
Se i provvedimenti avviati intendono ridisegnare con realismo l’insieme delle tutele e dei servizi per le persone come abbiamo inteso non possono che essere sostenuti. Sapendo che i riformisti in Italia hanno sempre dovuto faticare molto per fare emergere le ragioni del cambiamento contro corporazioni e rendite che, attraverso la difesa dello statalismo, nascondono interessi privati.
La volontà e l’indirizzo nuovo sono da subito verificabili facendo sì che la Garanzia giovani sia applicata sperimentando un nuovo sistema di finanziamento dei servizi rivolti ai giovani e mettendo in campo un’agenzia unica di coordinamento. Se quello di Renzi vuole essere un governo del fare non mancherà certo di lavoro.