È finalmente entrato nel vivo l’iter parlamentare di conversione in legge del decreto Poletti sul lavoro. Le attese sono molte, così come le incertezze. Il decreto non piace alla Cgil e, soprattutto, a una vasta parte del Pd, partito di maggioranza della coalizione di governo, tra cui Cesare Damiano che presiede la commissione Lavoro della Camera.
Bisogna tener in considerazione inoltre le polemiche sorte dopo le frasi di Renzi e di Poletti sul rifiuto del metodo concertativo. Partendo da una constatazione ormai accettata dai più, l’esecutivo rischia di ridurre i corpi intermedi a un ruolo marginale e quasi ininfluente nel rapporto tra cittadino e governo, in una direzione opposta rispetto alla storia del nostro Paese.
Per queste due ragioni diviene di grande interesse soffermarsi ad analizzare le audizioni informali che si sono susseguite in Commissione. Queste hanno visto come protagoniste le parti sociali ed esperti di diritto del lavoro ed economia. Il quadro che emerge è quello di una grande spaccatura tra sindacati e associazioni datoriali. Unica eccezione che sembra emergere è la posizione della Cisl che valuta positivamente la direzione nella quale va il decreto.
Che cosa dicono quindi i due blocchi contrapposti? Da un lato troviamo la Cgil che si esprime negativamente su tutto il decreto (compreso un punto sulla quale si trova da sola in disaccordo, la smaterializzazione del Durc), seguita dalla Uil, con toni meno duri ma pur sempre netti, dall’altro Confindustria e Rete Imprese Italia, che individuano nei provvedimenti quello di cui il Paese aveva bisogno da anni. Per il resto i contenuti dello scontro sembrano quelli che caratterizzavano i primi anni del nuovo millennio, tutti concentrati nella dialettica tra precarietà e posto fisso.
Uno dei fattori che inasprisce il clima è sicuramente la scelta del governo di ricorrere allo strumento del contratto a termine come leva per l’occupazione. In tal modo non emerge uno sguardo che affronti il mercato del lavoro italiano nella prospettiva del lungo periodo (come mostrato dal recente Ebook del centro studi Adapt sul decreto Poletti).
Questo scontro dialettico, che emerge se si comparano le posizioni espresse durante le audizioni, ha diversi limiti. Il maggiore è sicuramente quello di individuare nel dualismo tempo determinato-tempo indeterminato la panacea di tutti i mali del mercato del lavoro italiano. Le liti su questo tema rischiano di essere parole al vento. Mentre il treno del post-fordismo ci ha già investito senza che ce ne accorgessimo, noi discutiamo ancora di categorie passate, costruite su una logica di lotta perenne tra lavoratore e impresa.
Fondamentale è stato anche l’apporto degli esperti durante le audizioni. Sono infatti emerse diverse criticità tecniche che rischiano di condurre l’Italia a un contenzioso con l’Unione europea, dannoso sia per le imprese che per il governo stesso. In particolare, Michele Tiraboschi e Tiziano Treu hanno posto l’accento su come le novità in materia di apprendistato conducano a equiparare l’istituto ai vecchi contratti di Formazione e lavoro, considerati dall’Unione europea mezzi di aiuti di Stato.
Da questa breve sintesi analitica delle diverse posizioni espresse dalle parti sociali e dagli esperti (che si può ritrovare nel Bollettino speciale Adapt del 10 aprile 2014) possiamo dedurre che il decreto sarà soggetto ad alcune modifiche. Esse potrebbero essere più tecniche che sostanziali. Senza esimersi dalla correzione di quegli aspetti in contrasto con la normativa europea, per evitare di cadere in contenziosi che, invece che aiutare la semplificazione, complicherebbero non poco la vita delle imprese. Ma l’urgenza principale è il rinnovamento delle parti sociali e della politica, entrambe hanno lo stesso compito: tornare a essere a servizio del popolo, secondo una buona idea di sussidiarietà.
Il sindacato e Confindustria non possono continuare essere autoreferenziali e legati a logiche conservatrici. Allo stesso modo la politica non può pensare di non confrontarsi con i corpi intermedi. Quello che può sembrare oggi un circolo vizioso all’italiana può diventare, alla luce della crisi che incombe e non si placa, un circolo virtuoso di modernizzazione.