Ieri il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, in occasione di un’intervista rilasciata a “Repubblica TV” ha esplicitato le linee guida di quella che sarà la futura azione di governo in tema di mercato del lavoro. In particolare, dopo aver indicato le presumibili tempistiche del completamento della riforma che emenderà l’infelice legge Fornero, ha svolto una sommaria analisi dell’attuale mercato del lavoro individuando nella disoccupazione il primo nemico da combattere. Le armi con cui sconfiggerlo sono quelle consuete, ossia quelle portate in dote dalla flessibilità in entrata e in questo senso, secondo il ministro, deve leggersi il primo intervento del governo in materia di contratto a tempo determinato, ossia la più comune forma di flessibilità a cui ricorrono le imprese.



Quanto e come il governo abbia rinnovato questo istituto è cosa nota e non occorre ribadirlo: sia sufficiente dire che sono stati fatti importanti passi per favorire il ricorso del lavoro a termine da parte delle imprese. Sono stati eliminati una serie di vincoli, sia normativi che operativi, che potevano dissuadere i datori di lavoro ad assumere lavoratori a termine e dunque in definitiva ad assumere tout court. Questo poiché, in una fase economica che potremmo eufemisticamente definire fluttuante, sostenere l’occupazione attraverso assunzioni che vincolano le parti alla stregua di un matrimonio indissolubile pare utopistico.



Qui però le note positive si esauriscono. Il ministro continua la sua esposizione delle intenzioni del governo parlando della ricerca di un equilibrio tra costi e flessibilità; come a dire che il vantaggio di un contratto flessibile deve essere compensato da un aggravio economico. La cosa, se non fosse drammatica, farebbe sorridere, perché da queste parole si evince che il governo starebbe per cadere nel medesimo errore che ha afflitto la riforma precedente dallo stesso ampiamente criticata .Il ministro infatti parrebbe sostenere – il condizionale è d’obbligo perché le smentite sono sempre possibili – l’opportunità di aumentare il costo del contratto di lavoro a tempo determinato sino al 10% in più, ma meglio ancora sarebbe il 12%, rispetto al contratto di lavoro a tempo indeterminato, definito più tutelante. In sostanza, il divario tra le due forme contrattuali, stabilito in precedenza all’1,4%, andrebbe quasi decuplicato.



Quanto un provvedimento di tal fatta sia inopportuno è chiarissimo, anche solo alla luce delle parole del Presidente del Consiglio che ha più volte indicato come passo obbligato la riduzione del costo del lavoro, in particolare quello del cuneo fiscale. Ciò anche in ottica di competitività delle nostre imprese sul mercato globale, nonché per favorire possibili investimenti produttivi esteri sul nostro territorio. La competitività, infatti, non è data dalla sola semplificazione, ma anche dalla più immediata valutazione del costo connesso all’assunzione di un lavoratore.

Poletti ha poi dichiarato di voler ridurre drasticamente le tipologie contrattuali che nell’attuale stesura normativa sarebbero a suo dire ridondanti. Altra nota dolente che si inserisce nel quadro delineato di riduzione delle tipologie contrattuali è quella della nuova figura di contratto a tempo indeterminato definita a “tutele crescenti”; sebbene il contenuto preciso di tale contratto si perda per ora in un futuro non troppo lontano, il titolo lascia presagire che la flessibilità richiesta dal mercato rimarrà inascoltata, con tutte le conseguenze negative sull’occupazione del caso.

Il governo quindi oggi sembra attuare un cambiamento di rotta rispetto ai primi provvedimenti adottati, tuttavia la nuova direzione appare troppo simile a quella dei suoi predecessori di cui oggi paghiamo le scelte tutt’altro che illuminate.

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