Il “Decreto Poletti” su contratto a termine e apprendistato arriva in Parlamento per la sua conversione in legge e già cominciano a intravvedersi i segnali di una “ritirata” sul tema della flessibilità in entrata. La commissione Lavoro della Camera, infatti, ha approvato una serie di modifiche che dimostrano la volontà di limitare l’utilizzo di alcuni istituti disciplinati dal decreto in maniera più flessibile. Ad esempio, il D.L. 3472014 stabilisce che il contratto a termine può essere prorogato otto volte, mentre nella versione approvata dalla Commissione le proroghe consentite si riducono a cinque. Non solo, ma rispetto al decreto originario (oggi in vigore), le cinque proroghe si computano indipendentemente dal numero dei rinnovi. In altri termini, mentre nel regime attualmente in vigore ciascun contratto a termine può essere prorogato per un massimo di otto volte, nel rispetto del limite complessivo dei trentasei mesi, nella nuova legge le proroghe ammissibili non potrebbero essere superiori a cinque nel loro complesso, a prescindere dal numero dei rinnovi intervenuti.
La Commissione, inoltre, reintroduce, anche se in forma sintetica, il piano formativo da allegare al contratto di apprendistato, oltre a disciplinare una vera e propria clausola di stabilizzazione già prevista dalla Legge Fornero. I datori di lavoro con almeno trenta dipendenti potranno assumere nuovi apprendisti solo se nei trentasei mesi precedenti la nuova assunzione abbiamo confermato almeno il 20% degli apprendisti dipendenti dello stesso datore di lavoro.
Ora, non sembra che nel mercato del lavoro attuale le modifiche colgano nel segno. Se è vero, infatti, come ha dichiarato mercoledì il Ministro Poletti, che la disoccupazione è il primo nemico da combattere e le armi con cui sconfiggerlo sono sempre le stesse, ossia aumentare la flessibilità in entrata, l’introduzione di vincoli normativi non aiuta di certo le aziende ad assumere.
Il Parlamento, inoltre, entra in contraddizione con se stesso allorché, nell’art. 1 riformulato, evidenzia che le modifiche vengono apportate in “considerazione della perdurante crisi occupazionale e nelle more dell’adozione di provvedimenti volti al riordino delle forme contrattuali di lavoro, al fine di rafforzare le opportunità di ingresso nel mercato del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione e fermo restando che il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”. La contraddizione, ancora, è evidente anche alla luce della situazione economico-finanziaria del nostro Paese che, essendo sempre più caratterizzata da cicli fluttuanti, richiede maggior flessibilità non solo nella fase di entrata nel mercato del lavoro, ma anche nella gestione del rapporto di lavoro stesso.
Del resto, la necessità di tenere la contabilità delle proroghe anche in relazione a precedenti rapporto di lavoro (cinque in tutto) entra in conflitto con un altro caposaldo lungo cui si è formato il governo Renzi: semplificare le procedure e gli adempimenti burocratici nell’ottica di rendere il sistema Paese attrattivo per gli investitori, soprattutto internazionali. C’è ancora tempo per rimediare e per rivedere una modifica che, oltre rendere più complicata la flessibilità in entrata, di certo non aiuta l’Italia a recuperare competitività e, quindi, a ridurre la “piaga” della disoccupazione.