L’articolo che il Wall Street Journal ha dedicato al preoccupante declino della natalità italiana avrebbe fatto la felicità del filosofo inglese David Hume, se solo fosse stato ancora vivo. Hume, noto per aver attaccato con forza i concetti fondamentali della metafisica, sosteneva tra l’altro che quello che appare un rapporto tra cause e conseguenze in realtà non sia altro che una successione tra due fattori, magari ripetutamente concomitanti, che alla nostra conoscenza appaiono in questo modo correlati. Basta mettere due elementi in fila – una, due, tre volte – per avere l’impressione che il primo causi il secondo in maniera necessaria. Esattamente come accade nell’articolo appena citato, che alterna le testimonianze di alcune donne italiane ai dati socioeconomici che fotografano la crisi del nostro Paese.



Così, va a finire che l’assenza di desiderio di maternità dichiarato dalle intervistate (a proposito, perché solo donne? Ma i figli non erano di entrambi, padri e madri?) venga messo in relazione con la precarietà lavorativa o con lo scarso tasso di occupazione, con la mancanza di supporto dei partner nella gestione familiare, oltre che con la solita carenza di asili nido. Peccato che, tra le donne interpellate, nessuna si lamenti della disoccupazione o della mancanza di un lavoro stabile, né di avere partner poco collaborativi, né di non aver trovato posto al nido: nessuna delle dichiarazioni riportate nell’articolo offre il benché minimo appiglio alla correlazione con i possibili fattori che ne spiegherebbero i fondamenti.



In particolare, per quanto riguarda i nidi, se la giornalista si fosse presa la briga di approfondire appena un po’ i dati sul nostro Paese avrebbe scoperto che la mancanza di un asilo non sembra causa della mancata ricerca di lavoro da parte delle madri, ma semmai la sua conseguenza: come ha ben spiegato la giornalista Monica D’Ascenzo, de Il Sole 24 Ore, partendo dal caso paradossale di Arese, a causa della crisi molti genitori hanno perso il lavoro, e i posti nei nidi – ancorché inferiori rispetto alle percentuali previste da Lisbona – sono diventati addirittura sovrabbondanti.



Quello che la stampa nostrana ha subito salutato come la rivelazione della scottante verità sulla natalità italiana in declino appare così una semplice sequenza di parole e numeri, che non riesce a diventare una sequenza causale. Eppure, a leggere meglio le citazioni, qualcosa emerge: solo che si tratta di qualcosa di completamente diverso dalla tesi che il Wall Street Journal, dimentico della lezione di Hume, intende suggerire tra le righe.

Le donne sentite dalla giornalista parlano di un desiderio mai emerso, di una pianificazione consapevole della propria vita che esclude i figli, della completa mancanza di trasporto per i bambini, della paura di perdere la propria libertà, individuale o di coppia. Tutti elementi che non hanno a che vedere con difficoltà subìte, con fattori discriminanti o con limitazioni imposte, ma sono il frutto di una lunga e alla fine vittoriosa tendenza culturale, che si è imposta anche nel nostro Paese: quella “childfree”. E questo malgrado il nostro tradizionale retroterra storico e sociale, che secondo l’articolo stigmatizzerebbe tuttora la scelta di non avere figli: scelta che tuttavia sembra preoccupare tanto persino il quotidiano Usa, di certo meno tradizionalista.

Piuttosto che cercare altrove le possibili cause per la disaffezione delle italiane verso la maternità, magari rispolverando qualche sempiterno luogo comune, varrebbe allora la pena interrogarsi su quello che le italiane hanno imparato a essere: non dalle loro famiglie, ma da una società, da una cultura, da un’epoca che della famiglia è sempre più nemica.

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