Una “tassa” di 233 milioni di euro (102 soltanto nel 2013). È il conto, salato, pagato dai lavoratori occasionali nei sei anni di operatività dei voucher: studenti, pensionati, disoccupati che, in cambio di un buono-lavoro del valore nominale di 10 euro (voucher), prestano un’ora di lavoro a favore di famiglie e ora anche di imprese e professionisti. Di quei 10 euro nominali, tuttavia, in tasca ai lavoratori arrivano soltanto 7,5 euro: il resto di 2,5 euro se lo spartiscono Inps e Inail. Precisamente 1,3 euro finiscono nel calderone della Gestione Separata Inps, dove marciranno senza mai fruttare una vera e propria prestazione previdenziale o assistenziale; 0,5 euro ripagano sempre all’Inps il servizio di riscossione; infine, 0,7 euro vanno all’Inail per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Dal 2008 al 31 dicembre 2013, in base ai dati forniti dall’Inps il 15 aprile scorso, sono stati venduti poco più di 93 milioni di voucher per un controvalore nominale di 932 milioni di euro circa. Di questi tuttavia solo 671 milioni sono andati a finire nelle tasche dei lavoratori. E il resto? Il resto è la “tassa” di 233 milioni di euro pagata dai lavoratori che è finita per 168 milioni all’Inps e per 65 milioni all’Inail.



Che cos’è il lavoro accessorio.Introdotto dalla riforma Biagi del 2003, era una particolare modalità di prestazione lavorativa con la finalità di regolamentare quelle prestazioni occasionali e accessorie non riconducibili a un contratto di lavoro vero e proprio, in quanto svolte in modo saltuario (cioè quei lavoretti che solitamente venivano fatti in nero come, per esempio, dare ripetizioni, fare baby-sitting, vendemmiare, ecc.). La riforma Fornero 2012, e le successive modifiche del decreto Sviluppo 2012 e del decreto Lavoro 2013, hanno radicalmente trasformato la disciplina delle cosiddette “prestazioni occasionali di tipo accessorio rese da particolari soggetti” (Capo II, Titolo VII, dlgs n. 276/2003, la riforma Biagi). Le modifiche fondamentali riguardano la nozione stessa di prestazioni di lavoro accessorio che ora sono qualificate come attività lavorative (non c’è più l’ulteriore qualificazione di “natura meramente occasionale”) che non danno luogo con riferimento alla totalità dei committenti a compensi superiori a 5mila euro nel corso di un anno solare. Rispetto al passato, insomma, non c’è più un riferimento a causali “soggettive” e “oggettive”, cioè alle categorie di prestatori e ai settori di attività per i quali era consentito far ricorso a tali prestazioni: oggi, pertanto, tali prestazioni sono sempre legittime all’unica condizione che vengano retribuite nel limite di 5mila euro per anno solare con riferimento al singolo lavoratore e a prescindere dal numero di committenti (nel caso di imprese e professionisti, oltre al limite di 5mila euro, è previsto l’ulteriore limite di 2mila euro di voucher per singola impresa o professionista). Tali limiti di legittimità (5mila e 2mila euro) sono soggetti a rivalutazione annuale e nell’anno solare 2014 sono diventati, rispettivamente, 5.050 euro e 2.020 euro netti (6.740 euro e 2.690 euro al lordo dei contributi).



Il sistema dei “buoni” (voucher). Il pagamento delle prestazioni accessorie avviene attraverso il meccanismo dei “buoni”, ossia voucher, il cui valore nominale è di 10 euro per un’ora di lavoro. Esistono buoni multiplo di 50 euro equivalente a cinque buoni non separabili e da 20 euro equivalente a due buoni non separabili. Il valore nominale (10, 20 o 50 euro) è comprensivo della contribuzione (13%) a favore della Gestione Separata Inps, di quella in favore dell’Inail per l’assicurazione infortuni (7%) e del compenso al concessionario (sempre Inps) per la gestione del servizio (5%). Perciò il valore netto del voucher di 10 euro nominali, cioè il netto intascato dal lavoratore, è pari a 7,50 euro: 1,3 euro vanno alla gestione separata Inps, 0,7 all’Inail e 0,5 euro all’Inps per il servizio di riscossione.



Una “tassa”, perché non dà diritto a prestazioni né a pensioni. Il contributo versato alla Gestione Separata Inps (oggi al 13%, ma è possibile aumentarlo con un decreto del ministero del Lavoro e c’è da giurare che, prima o poi, succederà!) può incidere solo sulla misura di un’eventuale pensione cui il lavoratore abbia diritto (evidentemente per via di un altro lavoro). Ciò in quanto è matematicamente impossibile che il periodo lavorato con i voucher possa essere considerato ai fini del requisito dell’anzianità contributiva, perché in tal caso entra in gioco il “minimale” di accredito contributivo (ne ho parlato su queste stesse pagine).

Tale “minimale” richiede che, affinché un lavoratore possa avere accreditato un anno di contributi (il 2014) utile per la pensione (cioè un anno da contare per raggiungere, ad esempio, i 20 anni di anzianità contributiva che serve per la pensione di vecchiaia), egli guadagni un compenso annuo (nel 2014) non inferiore a 15.540 euro. Va da sé che ciò è matematicamente impossibile, poiché un lavoratore occasionale non può in un anno solare (il 2014) guadagnare più di 6.740 euro di voucher; pertanto il diritto a un anno di contribuzione, in teoria, può essere raggiunto soltanto dopo aver lavorato per tre anni a pieno ritmo!

Accanto a questo, va ricordato inoltre che i contributi versati alla Gestione Separata tramite i voucher non sono utili – stavolta per previsione di legge – per nessuna indennità di maternità, di malattia, di assegni al nucleo familiare, ecc., e nemmeno per perfezionare i requisiti per l’Aspi o la mini-Aspi.

La tabella qui sotto, elaborata su dati diffusi dall’Inps il 15 aprile, mostra le cifre movimentate dal sistema dei voucher. Dall’anno 2008 al 2013 i buoni venduti sono stati 93.166.510 per un controvalore di 931.665.100 euro. Di questi sono andati in tasca ai lavoratori 670.798.872 euro soltanto (il 75%), mentre il restante importo di 232.916.275 euro (il 25%) se lo sono spartito Inps e Inail.