Non si può certo dire che ci manchino i buoni consigli. L’ultimo viene da Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale, che bacchetta l’Italia per il mancato incoraggiamento alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Oltre agli incentivi fiscali, nell’intervista a Il Corriere della Sera di ieri Lagarde cita come esempio di intervento virtuoso anche la creazione di lavori part-time, sul modello olandese. Un esempio che va d’accordo con la tesi di Arianna Huffington, che nel suo articolo su Repubblica aveva qualche giorno prima lanciato un allarme: bisogna lavorare meno, non tanto e non solo per lavorare tutti (donne comprese), ma soprattutto perché l’organizzazione del lavoro efficientista e pervasiva sta mostrando la corda.



Forse però consigli come questi ce li siamo già dati, da soli. A parlare di un modello di lavoro che, ancorché di successo, “non funziona per le donne, e in realtà nemmeno per gli uomini”, erano già state le femministe storiche della Libreria delle Donne di Milano, che qualche anno fa pubblicarono il manifesto “Immagina che il lavoro”, con l’obiettivo di chiamare tutti a una pubblica discussione sull’argomento.



Alcune delle parole di Huffington riecheggiano quasi testualmente il Manifesto: ad esempio, quando scrive “Il concetto di successo che va per la maggiore adesso – in base al quale lavorare fino all’esaurimento e al logoramento psicofisico si considera un titolo di merito -, e che ci porta all’annientamento, se non addirittura alla tomba, è stato introdotto dagli uomini, in una cultura dominata dagli uomini. Però è un modello di successo che non funziona per le donne, e in realtà nemmeno per gli uomini”; laddove le femministe della Libreria delle Donne dicono: “Il lavoro è plasmato sugli uomini, quelli di una volta: suppone una centralità nella giornata e nella vita che può realizzarsi solo se tutta la cura di sé e degli altri viene delegata a qualcun altro, alle donne, quelle di un volta”.



O ancora, Huffington scrive: “Se vogliano ridefinire il significato di successo, se vogliamo adottare una terza metrica che va al di là del denaro e del potere, dovranno essere le donne a segnare la via, e gli uomini, liberati dall’idea che l’unica strada per il successo sia prendere l’autostrada dell’infarto verso la città dello stress, ci seguiranno riconoscenti sia al lavoro, sia a casa”; dove il Manifesto recita: “Noi donne, più degli uomini, siamo coscienti che non esiste alcuna divisione tra vita e lavoro; ciò che ci rende felici nella vita, ci rende felici nel lavoro, e viceversa. Per questo sta a noi condurre la battaglia, oggi nuovamente necessaria, per cambiare le regole del mondo del lavoro e migliorare la qualità della vita di tutti”.

Persino il concetto della “terza rivoluzione femminile” evocato da Huffington trova echi nel Manifesto, che parla di un “atto terzo” scandito dal crollo dell’orario uguale per tutti, dallo smascheramento della presunta oggettività del merito, da un nuovo genere di competizione, aliena da inutili tornei, che ponga al centro trasparenza degli obiettivi e responsabilità. E non a caso, l’approdo del discorso di Huffington è analogo a quello delle femministe: il “doppio sì” a lavoro e maternità, il riconoscimento di un’esigenza, di un desiderio insopprimibile, anche per le donne lavoratrici, che secondo un’indagine di Forbes Woman aspirano per l’84% a potersi occupare personalmente dei figli.

È ormai riconosciuto che la contrapposizione binaria tra “madre-casalinga” e “donna in carriera” abbia fatto il suo tempo, di fronte a un logoramento della vita che sempre più svela la necessità di riappropriarsi della completezza dell’esistenza. Tuttavia, prese di posizione come quelle di Huffington arrivano a cose fatte, alla stregua della nottola di Minerva, quando la riflessione sul lavoro nata e germogliata nel nostro Paese ha già cominciato a portare i primi frutti, a dispetto delle critiche di Lagarde.

Per restare in Lombardia, come si ricordava di recente in un convegno a cui ha preso parte anche l’assessore Aprea, la regione si è dotata fin dal 2004 di una legge relativa ai tempi delle città per favorire la conciliazione, e già 148 comuni lombardi hanno promosso e adottato un Piano territoriale degli orari. Più in generale, l’accresciuta consapevolezza tecnologica unita alla maggiore sensibilità verso le esigenze familiari ha spinto anche nel nostro Paese ad affrontare con rinnovato vigore il tema dello smart working: non solo in ottica di conciliazione, ma più in generale di cost-saving per le imprese e di maggiore efficienza e produttività dei lavoratori.

Resta vero che le parole di Arianna Huffington, o quelle di Christine Lagarde, avranno forse più eco di quelle delle femministe della Libreria delle Donne, e più visibilità delle tante iniziative positive già inaugurate; ma se così sarà, lo si dovrà non tanto alla freschezza o alla bontà delle proposte, ma piuttosto alla visibilità e l’influenza guadagnate da Lagarde e Huffington in anni di dedizione a quel “modello di successo che non funziona per le donne”.