L’operazione avviata da Matteo Renzi con il Jobs Act ha il pregio di aver smosso la cristallizzata organizzazione del nostro mercato del lavoro. Alla luce dei dati sul monitoraggio della precedente riforma, che non aveva incrementato i contratti di lavoro a tempo indeterminato, e considerata la preferenza data dalle imprese italiane alle assunzioni con contratto a tempo determinato, il capo del governo ha convinto le imprese a scambiare i 10 miliardi di euro a favore dei lavoratori con la libertà nella gestione delle assunzioni a tempo determinato. In aggiunta le imprese hanno portato a casa un apprendistato più semplice con regole chiare al fine di limitare i contenziosi.



Pare incredibile, ma la partita di un miglior funzionamento del mercato del lavoro si è giocata proprio in questo scambio nel quale le imprese dovranno dimostrare disponibilità alle nuove assunzioni e i lavoratori accettare una maggiore flessibilità nel primo impiego attendendo almeno tre anni per la stabilizzazione. In realtà, abbiamo fatto un passo avanti sulla strada di una maggiore flessibilità in ingresso (e non ancora in uscita) dal mercato del lavoro richiesta ormai da tempo dall’Unione europea.



È un buon inizio, ma vediamo le insidie nascoste. Che le imprese richiedano una finestra triennale, rispetto all’annualità prevista dalla riforma Fornero, nelle assunzioni dei lavoratori a tempo determinato risulta ragionevole considerando il peso di tali contratti (nel 2013 hanno rappresentato circa il 70% di tutte le attivazioni). È pure ragionevole la presenza delle proroghe che rappresentano una tutela alla visibilità media di mercato per le imprese, in un periodo recessivo con scarsi segnali di ripresa. Le otto proroghe previste (si pensa di scendere a sei) sono tante e il rischio di un loro utilizzo scomposto, come nel caso di un contratto a termine nel mese luglio e un rinnovo a settembre senza causale, descrive una riduzione di tutele verso il lavoratore.



Siamo in linea con le politiche che l’Ue da tempo ci richiede per migliorare il mercato del lavoro. È bene ricordare che l’Ue pone il contratto di lavoro a tempo indeterminato quale modalità normale di rapporto tra le parti, in quanto permette di organizzare in modo equilibrato la vita dei lavoratori.
Le forme flessibili di lavoro sono individuate principalmente nel contratto a termine e nella somministrazione di lavoro. Nel primo contratto la scadenza viene apposta per esigenze organizzative produttive o sostitutive con evidenza della scadenza garantendo la parità retributiva e le assicurazioni sociali previste dai contratti di lavoro. Nel caso della somministrazione di lavoro (l’ex interinale) lo scopo è rispondere alle esigenze di flessibilità produttiva delle imprese garantendo al lavoratore, in aggiunta alla parità retributiva e assicurativa, un sistema di welfare specifico per i lavoratori che garantisce assistenza e formazione proprio per rafforzarne l’occupabilità e l’occupazione permanente. Per questo motivo la somministrazione costa di più: per il 4,3% che finanzia il sistema di welfare di settore.

L’Ue prevede che le tipologie contrattuali stabili e flessibili vengano combinate con un sistema di servizi per il lavoro e politiche attive che garantiscano l’occupabilità e l’occupazione dei lavoratori.
Il primo problema riguarda l’insostenibilità dei contratti privi di tutele quali le collaborazioni a progetto e le partite Iva con un unico cliente. Con la presenza di una flessibilità in entrata così ampia (36 mesi e 8 proroghe per il primo contratto e 20% di contratti flessibili) il fenomeno dei contratti privi di tutele (parità di trattamento salariale e welfare) dovrebbe essere rifiutato dalle imprese. Gli accordi tra le parti sociali possono ulteriormente incrementare perfezionare e combinare le necessità di flessibilità con le tutele. La necessità di sostenere servizi alla ricollocazione offerti a tutti i lavoratori che concludono il contratto a termine suggerisce di adottare un modello (già sperimentato in Francia) che preveda un costo maggiore dell’assicurazione contro la disoccupazione per contratti con durata inferiore a 4/6 mesi.

Il secondo problema riguarda l’assenza di qualificati e omogenei servizi di politica attiva del lavoro presenti in tutto il territorio nazionale che dovrebbero sostenere il reimpiego dei lavoratori con contratto a tempo determinato che terminano il lavoro. Infatti, sono ancora poche le regioni che hanno attivato i sistemi di accreditamento per i servizi al lavoro e ancora incerta l’azione delle politiche attive a favore della ricollocazione dei lavoratori. La situazione paradossale che può accadere a un giovane lavoratore che ha appena concluso il contratto di lavoro, quindi
disoccupato, è di non poter esercitare il diritto a un servizio di ricollocazione in quanto nella propria regione tale servizio è finalizzato alle pratiche amministrative e nelle regioni limitrofe è presente con servizi finalizzati alla ricollocazione.

La debolezza delle attuali politiche attive per il lavoro è caratterizzata principalmente dal fatto che non partono dal risultato che si vuole raggiungere. Il risultato non può essere che un inserimento al lavoro (almeno 6 mesi): attraverso questo percorso il lavoratore riprende un contatto professionale con un’azienda. A partire da una logica di risultato anche il rimborso sulle attività svolte (orientamento, patto di servizio, bilancio delle competenze, accompagnamento al lavoro, formazione) potrà essere distribuito con una parte “a processo” e una a “risultato” in funzione al periodo di occupazione.

Le due insidie presentate rischiano di limitare fortemente il potenziale della prima riforma del lavoro del governo di Matteo Renzi. Alla prima dovranno rispondere le imprese incrementando le assunzioni con i contratti a tempo determinato eliminando le collaborazioni a progetto e false partite Iva. Per la seconda i fattori in gioco sono almeno due.

L’impostazione delle politiche attive vincolate ai risultati: con un pacchetto di servizi a costi standard offerti ai disoccupati, con una presenza di operatori pubblici e privati qualificati e in concorrenza, con un rimborso dei servizi collegato al risultato occupazionale.

La collaborazione tra Servizi pubblici per l’impiego, di competenza regionale, con le Agenzie per il lavoro: il numero dei lavoratori che hanno il diritto di chiedere un’opportunità di ricollocazione ha raggiunto dimensioni tali che non si può tergiversare individuando i migliori strumenti e metodi di collaborazione per la ricollocazione.

Ci auguriamo che con questo primo passo del governo di Matteo Renzi si possa avviare una stagione nella quale tutte le imprese possano trovare i talenti, di tutte le età, che necessitano per navigare nelle intemperie di un mercato globale che è la realtà di tutti i giorni. 

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