Dopo il “Decreto Poletti” su contratto a termine e apprendistato arriva in Parlamento il Disegno di legge delega di riforma del mercato del lavoro a completare il pacchetto di misure previste dal Governo Renzi (il cosiddetto “Jobs Act”) per il rilancio dell’occupazione nel nostro Paese. La delega è corposa e si compone di cinque capitoli: ammortizzatori sociali, riforma dei servizi per il lavoro e politiche attive, semplificazione delle procedure e degli adempimenti burocratici, riordino delle fattispecie contrattuali e sostegno alla maternità e paternità. Ad allarmare è il tasso di disoccupazione che, nel nostro Paese, si attesta al 13% secondo gli ultimi dati Istat.



Tale situazione ci impone di agire su più fronti al fine di far ripartire l’elemento su cui si fonda tutta la nostra Repubblica: il lavoro. Ben vengano, quindi, misure che eliminino passaggi burocratici inutili e costosi ovvero concedano un sussidio di disoccupazione anche a coloro che fino a oggi ne erano sprovvisti. Certamente un Paese attrattivo dal punto di vista degli investimenti deve avere una legislazione semplice (e in questo il codice del lavoro va nella giusta direzione), forme contrattuali flessibili che consentano un facile inserimento di giovani, ma anche non più giovani, nel mondo del lavoro. Tra gli obbiettivi del Disegno di legge presentato in Parlamento v’è anche il sostegno alla maternità e paternità (“tax credit” per le donne con figli minori al di sotto di una certa percentuale di reddito) e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (maggiore flessibilità sugli orari di lavoro e congedi). Non senza importanza, da ultimo, è la revisione dei servizi al lavoro e delle politiche attive la cui riforma dovrà creare un dialogo strutturato tra imprese e lavoratori, senza minimamente tralasciare il mondo scolastico.



La Legge Delega presentata in Parlamento (che dovrà ora tradursi in normativa di legge) risponde alle aspettative di tutti gli investitori, anche internazionali. Tuttavia, questo non è ancora sufficiente. Per far uscire definitivamente l’Italia dalla recessione bisogna agire necessariamente sul costo del lavoro. E non è un caso che proprio giovedì scorso sia l’Ocse, sia il Fondo monetario internazionale siano tornati a mettere l’accento sull’elevato costo del lavoro in Italia, esortando la politica italiana a mettervi mano al fine di ovviare al deficit di competitività.

L’Italia potrà ripartire ed essere attrattiva nei confronti delle aziende solo se, oltre alle misure contenute nel cosiddetto Jobs Act, si introdurrà un politica di riduzione del costo del lavoro costante e progressiva per lavoratori e aziende, non limitandosi a provvedimenti temporanei che non danno alcun effetto benefico se non nell’immediato. La riduzione del cosiddetto cuneo fiscale su cui il Governo Renzi sta lavorando (ossia il differenziale tra ciò che il lavoratore percepisce al netto in busta paga e ciò che il datore di lavoro paga in termini di tasse e contributi) è un passaggio più che importante se si vuole rendere l’Italia “più conveniente” e al tempo stesso più competitiva.



Non solo. Questo passaggio dovrà essere attuato anche a livello europeo allo scopo di uniformare il cuneo fiscale evitando così fenomeni di “dumping” tra i vari paesi. In una parola, il lavoro non si crea per legge o decreto, ma soprattutto puntando sulla crescita dell’economia che si fonda su una maggiore capacità di spesa di ogni singolo lavoratore, che può essere garantita sia attraverso salari legati alla maggiore produttività, sia attraverso la cosiddetta “leva fiscale”, riducendone il costo del lavoro.

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