Sono più di tre giorni che si è tornati a parlare del salario minimo perché la Germania, per volere del ministro del Lavoro, Andrea Nahles, ne ha introdotto uno di 8,5 euro l’ora a partire dal 1 gennaio 2015. Soprattutto per questo si è ancora una volta avuta l’impressione che la Germania viaggi alla velocità di una locomotiva all’avanguardia, mentre l’Italia alla velocità di una di quelle esposte al museo di Pietrarsa. In realtà, le cose non stanno esattamente così. Per capire la ragione, bisogna far luce su un’importante differenza che corre tra i due paesi.



In Germania, i minimi salariali, e dunque per intenderci i graduali incrementi del salario, almeno sino a pochi giorni fa, generalmente [] venivano decisi dai sindacati e acquistavano efficacia obbligatoria per mano del legislatore, con la cosiddetta “dichiarazione di cogenza generale” (“Allgemeinverbindlichkeitserklärung”). Questo a condizione che gli accordi sul salario: a) fossero sottoscritti dai sindacati rappresentativi di imprenditori con alle dipendenze almeno il 50% degli addetti dell’intero settore; b) fossero approvati dal Comitato per la contrattazione collettiva, composto da tre rappresentanti del sindacato e da tre imprenditori.



Tale sistema è entrato però in crisi a partire dagli anni 2000, perché gli imprenditori, quando non sono fuggiti dal sindacato, hanno bloccato questi accordi all’interno del Comitato per la contrattazione e quindi l’estensione della loro efficacia a tutte le aziende del settore. Ad esempio, i dati Eiro (Osservatorio europeo sulle relazioni industriali) stimano che, tra il 2004 e il 2007, gli incrementi salariali su base collettiva si sono attestati sull’1,8%, contro la media europea del 5,53%. E così, alcune aziende hanno dato applicazione a questi accordi sindacali con condizioni di miglior favore per i lavoratori, molte altre non l’hanno fatto.



Per questo, hanno preso vita fenomeni di dumping tra addetti dello stesso settore che hanno percepito per lo stesso lavoro retribuzioni diverse e quindi di distorsione della concorrenza tra le imprese dello stesso settore che hanno pagato lo stesso lavoro con retribuzioni diverse. E così, il salario minimo per legge, obbligatorio per tutte le aziende, è principalmente servito a riequilibrare questa situazione.

In Italia, invece, nel solco dello Statuto dei lavoratori, i minimi salariali sono decisi dai sindacati con accordi [] che acquistano di per sé efficacia generalizzata verso tutte le aziende, senza necessità di alcuna altra approvazione. E così, se un imprenditore non li rispetta, il lavoratore ha gioco facile a ottenere la quota di salario non percepita: ricorre al giudice del lavoro e invoca la violazione dei famosi articoli 36 della Costituzione e 2099 del codice civile.

[1] Per alcuni settori vigeva invece la “Legge sui lavoratori al seguito” (“Arbeitnehmerentsendegesetz”), secondo cui i contratti collettivi sui minimi salariali potevano essere estesi a livello nazionale dal ministro del Lavoro alle imprese interessate, a seguito di richiesta e dopo consultazione delle parti sociali.

[2] Dopo l’accordo sugli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009, questi accordi sono rinnovati ogni tre anni.

In questo contesto, un salario minimo per legge in Italia ha quindi poca, se non nessuna, utilità. Forse solo un effetto suggestivo, che però svanisce presto al ricordo che: i salari devono riflettere le specificità di ogni settore produttivo (già i sindacati federali fanno fatica a tenerne conto) e un salario minimo uguale per tutti le annullerebbe completamente.

Quale allora una praticabile alternativa per il nostro Paese? Io risponderei: salari più legati alla produttività di ogni singola azienda, e quindi alla contrattazione di secondo livello, in linea con quanto ha sostenuto anche il viceministro Morando. Si tratterebbe di premiare di più il merito dei singoli. Ma il discorso è molto lungo.