Il sistema “previdenziale” è nato con l’obiettivo di garantire la copertura economica verso coloro che a una certa età non sono più in grado di poter lavorare. In tal senso, l’idea di coloro che avevano creato il sistema era la seguente: una persona lavorava 30-35 anni e, grazie ai contributi versati, poteva godere per un determinato periodo di una pensione sulla base di una serie di parametri. Attraverso i calcoli basati sulla speranza di vita, questo periodo doveva durare 10-15 anni, in modo che il sistema a regime rimanesse letteralmente in equilibrio in eterno.
Nei paesi occidentali (e anche in molti altri) sappiamo che questo sistema non funziona così, una persona lavora per 35 anni e molto probabilmente godrà di una pensione per altri 35 anni, se tutto va bene. A ogni individuo che legge questo contributo auguro tale fortuna, ma potete capire che, generalizzato, un sistema previdenziale di questo tipo è inevitabilmente portato al fallimento, che non avviene immediatamente, ma richiede decine di anni; ovvero è necessario attendere il momento “critico” in cui il numero di pensionati supererà di gran lunga il numero di lavoratori, e questa rappresenta una quasi sicura previsione per il nostro Paese, data la bassa fertilità.
A ciò si aggiunge che un sistema come quello italiano, dove la spesa previdenziale la fa da padrone rispetto a tutte le altre voci del welfare, è in letteratura “un sistema irreversibile”: non è che per finanziare gli asili nido si può togliere la pensione a un ottantenne perché ai suoi tempi non aveva pagato i contributi che oggi pagano i suoi nipoti. La riforma Fornero, tanto odiata e sbeffeggiata, è stata l’inevitabile conseguenza di una “non-responsabilità” politica degli anni precedenti.
I governi di centrodestra, per ottenere consenso politico, modificarono con la Riforma Dini e poi Maroni il sistema previdenziale, ma scaricandone verso le generazioni future tutti gli effetti negativi, ampliati se non peggiorati dal centrosinistra, con la riforma Damiano (il famoso Protocollo di welfare), che non solo non rimediò allo squilibrio generazionale, ma anzi né amplio gli effetti modificando gli “scaloni” (le finestre per andare in pensione) con gli “scalini”: il risultato è stato favorire i lavoratori provenienti prevalentemente dal settore manifatturiero nell’andare in pensione (spalleggiati dai principali sindacati), senza creare una staffetta generazionale e producendo tra l’altro costi aggiuntivi (a regime stiamo parlando di decine di miliardi di euro) nella spesa pensionistica.
La criticità della riforma Fornero semmai è un’altra, ovvero la scelta arbitraria di prendere un anno di riferimento (classe del ‘52) e differenziare così drasticamente le finestre per accedere alla pensione tra coloro che sono nati prima e dopo quella data. Su tale argomento ben venga la proposta dell’attuale Ministro Poletti, ovvero creare una maggiore flessibilità per accedere alla pensione da parte dei cosiddetti “esodati”.
In tal senso, la proposta in estrema sintesi sarebbe quella di anticipare la pensione a queste persone (con 35 o più anni di contributi), che come una sorta di mutuo potranno pagare una volta in pensione con parte di quanto percepiranno (invece di prendere 1100 euro tra due anni, se ne prendono 800 subito e quella è la propria pensione fino a quando non si rientra delle risorse anticipate in termini di spesa previdenziale). L’obiettivo è quello di evitare l’emergere di nuove povertà nei confronti di coloro che non possiedono un reddito e sono in attesa di andare in pensione e, contemporaneamente, evitare di aggravare la già disastrata spesa previdenziale.
Spesa aumentata per effetto dell’assorbimento in Inps del comparto pubblico che era sull’orlo del fallimento, cosa che tra l’altro era piuttosto prevedibile per effetto del blocco dell’assunzioni nella Pubblica amministrazione: senza nuovi dipendenti il sistema non si può auto-finanziare (con relativa conseguenza di età media elevata e scarsa capacità di adeguamento verso le nuove sfide, come informatica e inglese).
Di tutt’altro avviso sono le mie considerazioni sul piano di prepensionamento dei dipendenti della Pubblica amministrazione per generare una “staffetta generazionale” più volte proposta dal ministro Marianna Madia. L’idea, seppur lodevole di accompagnare verso un lavoro stabile migliaia di giovani disoccupati e/o inoccupati, è alla base delle “disastrose” politiche (baby-pensione e mobilità lunga) che, accompagnate a una scellerata gestione dei nostri titoli di stato, sono alla base dell’attuale debito pubblico.
I programmi che hanno salvato la generazione degli anni ‘80 sono oggi la causa della disoccupazione di massa dei giovani (qui l’euro non c’entra): di fatto per decenni abbiamo semplicemente spostato in avanti i problemi, scaricando sul debito pubblico la mancanza di volontà da parte della politica di realizzare riforme strutturali (raccogliendo spesso consenso interno). E non si può non evidenziare la complicità di almeno una parte consistente delle parti sociali.
Alla luce delle considerazioni fatte, l’idea di una staffetta nella Pa è ulteriormente ingiusta (probabilmente sarà anche fonte di un dibattito costituzionale), perché produrrebbe da una parte un settore privato abbandonato letteralmente a se stesso (con il già citato fenomeno “esodati” e disoccupati di lungo periodo over 50 difficili da ricollocare) e dall’altra un settore pubblico ben assistito fino alla pensione.
Se la Pubblica amministrazione deve realizzare una riorganizzazione e razionalizzazione al suo interno, essa va fatta sulla produttività e competenza dei propri dipendenti e questa scelta va affidata ai dirigenti che devono assumersi la responsabilità di licenziare coloro che sono più inefficienti (non necessariamente i più anziani). Tale riorganizzazione può essere “accompagnata” da programmi di pre-pensionamento, ma questi devono essere allargati al settore privato e comunque nel caso di scarsità di risorse la scelta “deve” essere vincolata a criteri oggettivi (per esempio, la difficoltà di ricollocazione del soggetto). Solo in questo modo si possono creare misure basate su criteri di “giustizia sociale”.
Temo tuttavia che il conflitto generazionale sia solo all’inizio, soprattutto se i sindacati non comprendono la necessità di assorbire al loro interno i cosiddetti “precari” di ogni forma, che non vanno considerati “categoria protetta”, ma protagonisti della nuova concertazione. Per farlo, però, è ovviamente necessario svincolare la rappresentanza dalla pressione oggi proveniente dai lavoratori adulti “tutelati” e pensionati. In caso contrario, tutti gli attori coinvolti avranno qualcosa da perdere: i sindacati rischiano di essere letteralmente vuoti di iscritti che lavorano e quest’ultimi saranno sempre più discriminati, perché non avranno nessun rappresentante delle loro giuste motivazioni.