Ancora una volta, per coprire l’incapacità o, meglio, la non volontà della politica di intervenire strutturalmente a livello di riforme, il legislatore ha ri-regolato il lavoro. Stando a sentire i più noti commentatori e le voci più autorevoli, il Jobs Act – pare – troppi danni non ne farà. Visti i disastri sorti dopo la riforma Fornero, è già qualcosa. Certo è che il problema non è quello di evitare i danni, il problema è semmai di individuare misure e interventi che possano rilanciare l’economia e, quindi, l’occupazione. Tuttavia, è difficile – se non impossibile – che ciò avvenga intervenendo sulla regolazione del lavoro, ma oramai l’hanno capito (quasi) tutti; persino i giuslavoristi, che da circa 20 anni – dal pacchetto Treu in poi (1997) – da protagonisti assoluti della scena si erano quasi convinti di essere gli scienziati sociali del futuro. Erano in molti a credere che, rendendo le regole del lavoro più moderne e più simili ai mercati europei, la nostra economia sarebbe decollata.



Ecco allora che, oltre alle resistenze incontrate dagli ambienti sindacali più ideologici e meno inclini al riformismo, gli stessi protagonisti della regolazione hanno iniziato a smentirsi l’un l’altro, in modo tale che a ogni governo non poteva mancare la necessaria riforma del lavoro perché, naturalmente, quella precedente non andava bene. Cosa che ha sempre più complicato la nostra legislazione del lavoro e cosa che ha disorientato non di poco gli stessi attori, in particolare le aziende. Ma tutto ciò ha avuto una funzione importante, ha ovvero nascosto la mancanza di volontà dei partiti di intervenire in modo strutturale sull’economia, l’unico modo che ci permetterebbe di avere delle condizioni migliori in Europa in merito al nostro rapporto deficit/Pil. I partiti hanno paura di rischiare intervenendo strutturalmente, hanno paura (soprattutto il Pd) che possano pagare un alto prezzo in termini di consenso.



Andrebbero aggiunte altre due cose. In primis, hanno ragione i sindacati a reclamare la loro autonomia; sono loro i veri attori della regolazione; dopo tutto, ogni anno, sono decine e decine i Ccnl che vengono ancora rinnovati e la contrattazione aziendale è ormai cosa quotidiana. Non si capisce quindi questa esigenza di continuare a intervenire da parte dei governi. In secundis, ancora una volta, il legislatore si ritrova a spingere forme alternative a quella ordinaria: il contratto a tempo indeterminato resta ancora così com’è, ma è sempre più inutilizzato.

Il monitoraggio della legge Fornero ci dice che nelle oltre 10 milioni di assunzioni del 2012, solo il 17% è a tempo indeterminato, quindi solo 1 su 7. Questo perché il contratto a tempo indeterminato non è mai cambiato, non ha accolto flessibilità. Si continuano a creare alternative e di per sé non si lavora per introdurre vera stabilità nella regolazione del lavoro, che naturalmente non può prescindere dalla flessibilità di cui le aziende oggi hanno molto bisogno. Il 66,4% dei contratti oggi sono a tempo determinato, e ora con l’acausalità crescente saranno sempre di più e sempre meno a tempo indeterminato. In soldoni, flessibilizzando quello che dovrebbe essere lo strumento rigido (il contratto a tempo determinato) non crescono certamente le tutele nel lavoro.



Che tipo di soluzione potrebbe essere interessante? Certamente serve un nuovo contratto a tempo indeterminato, che introduca flessibilità in uscita (senza art. 18), ma offra al lavoratore la possibilità di ricollocarsi attraverso interventi di politica attiva obbligatori, pagati dall’azienda e dalle regioni e sostenuti dalla rete degli operatori pubblici e privati: questa è la vera flexicurity che funziona in Europa ma non in Italia.

La mancanza di questo sistema virtuoso di politiche attive e di welfare capaci di sostenere la flessibilità introdotta (inizialmente dalla legge Treu) è ciò che ha reso sempre più precaria e marginale la condizione giovanile. Intendiamoci, non sono solo i giovani a essere precari, ma è chiaro che il fenomeno della precarizzazione del lavoro ha colpito soprattutto i più deboli, le nuove generazioni. I numeri della disoccupazione e dell’inattività sono noti: oltre il 42% di giovani 15-24 anni è disoccupato (parliamo di circa 700.000 giovani), ma sopratutto sono 2,2 milioni i cosiddetti Neet (Not in education, employment or training) nella fascia 15-29 anni: sarebbero infatti oltre i 2 milioni i giovani che non sono iscritti né a scuola, né all’università, né lavorano e nemmeno seguono corsi di formazione o di aggiornamento professionale (più del 20% della popolazione nazionale di riferimento, quindi 1 su 5!). Secondo uno studio Eurofound, gli inattivi italiani costano allo Stato 26 miliardi (corrispondente a quota di Pil non prodotta): in poche parole, l’esercito inoperoso dei Neet italiani ipoteca, oltre al proprio futuro, circa 26 miliardi di euro all’anno, pari al 1,7% del Pil, al netto delle mancate tasse, dei costi indiretti in termini di salute e criminalità, oltre che di perdita di competitività sociale.

È chiaro che ci vuole poco per ritrovarsi da “occupati oggi” a “disoccupati domani”, vuoi perché il contratto scade e non viene rinnovato, vuoi perché l’azienda chiude o si ristruttura… nei mercati che funzionano non è che non ci sia disoccupazione, ma questa è “di qualità”, si traduce in mobilità. Si tratta di lavoratori che nel mercato si muovono, si ricollocano. In Italia il rischio di non ritrovare il lavoro quando lo si perde è alto. E dalla disoccupazione di lunga durata alla rassegnazione il passo è breve; i livelli della nostra inattività ci rendono una vera anomalia dell’Europa e dell’intera area Ocse.

Ma, ora, la Garanzia Giovani (o Garanzia Europea) saprà intervenire su questa piaga sociale? Intanto le regioni, a parte la Lombardia, il Piemonte, il Lazio, la Puglia e la Toscana, non sono pronte rispetto alla scadenza del 1 maggio. Molte – ma guarda un po’ – sono indietro… Facendo tuttavia un esempio concreto, in Lombardia, dove saranno disponibili 89 milioni di euro per i giovani dai 15 ai 29 anni, ci sono un milione e mezzo di giovani in questa fascia d’età, di cui circa 260.000 Neet, e il flusso di studenti in uscita dai percorsi formativi è di 70.000 persone all’anno. A loro il piano Garanzia Giovani offre un’opportunità di inserimento lavorativo. Per questo Regione Lombardia ha istituito un apposito sito internet tramite il quale possono aderire al progetto.

Ammesso e non concesso che per quel che riguarda i giovani disoccupati (il disoccupato è comunque in cerca di lavoro) e i giovani in uscita dai percorsi formativi la cosa possa funzionare (dipende poi come si gestiscono presa in carico e matching), rimangono forti dubbi sul fatto che questo sistema sia efficace per i Neet. Il rassegnato non è interessato al lavoro, non fa nulla… il problema del rassegnato è la sua rassegnazione, non se c’è o non c’è lavoro. Quindi, sul dramma più grande, difficilmente la Garanzia Giovani farà qualcosa.

Auguriamoci che quantomeno la Garanzia Europea sia l’occasione per l’Italia di includere maggiormente i giovani nel suo mercato, anche perché i mercati più in salute in Europa sono quelli dove i giovani sono i più inclusi: in quanto portatori di innovazione, le economie sane fanno di tutto per valorizzare i giovani, proprio perché lo sviluppo “passa” attraverso il loro lavoro, la loro conoscenza (soprattutto tecnologica) e la loro dinamicità. La condizione di esilio dei giovani italiani è proprio espressione del familismo (suicida) tipico del nostro Paese, che costringe molti dei nostri giovani cervelli ad andare altrove in cerca di fortuna: conservano a questo proposito molto interesse le analisi di S. Avveduto e M.C. Brandi che, utilizzando dati Istat relativi alla cancellazione dall’anagrafe dei laureati in Italia, hanno evidenziato come ogni anno l’Italia perda circa 3.000 laureati che emigrano in cerca di lavoro. Dati dell’Ue indicano che circa 34mila laureati, cioè un terzo di tutti i laureati espatriati, sono impiegati in attività di Ricerca e Sviluppo! Secondo l’Ue, sono oltre 100.000 i laureati che hanno deciso di lasciare l’Italia e sono diventati ricchi senza smantellare “un tessuto sociale in cui l’accesso al lavoro dipende dai contatti familiari, dalle affiliazioni politiche e dalle raccomandazioni” (l’Economist, che ha scritto del caso italiano, per direraccomandazioni usa proprio il vocabolo italiano). Il 45% si è trasferito in Nord America e il 40% è rimasto in Europa. Secondo l’Ocse sarebbero 300.000.

Ora: se c’è la “fuga dei cervelli”, significa che i cervelli ci sono e che qualcuno li forma. L’università italiana non è, quindi, tutta da buttare, e ciò è evidente se ci sono 34mila laureati italiani che lavorano in Europa nel settore della R&S. Ma li abbiamo costretti all’esilio. Non è che forse, prima di pensare che la Garanzia Europea possa aiutarci a trattenerli, si tratta di capire che il giovane va valorizzato e non va marginalizzato? Le aziende lo sanno che hanno bisogno di giovani per crescere? Qualche dubbio rimane, fino a ieri si parlava dei bamboccioni…

 

In collaborazione con www.think-in.it