Nei primi mesi del 2014, sindacati e governo, ciascuno per il suo, hanno compiuto importanti passi in avanti e creato una positiva congiuntura per la crescita del Paese. Eppure, allo stato, stentano ancora a unire le forze per portare a casa il risultato finale, anzi a tratti si sfidano. Con il rischio di fare ciascuno due passi indietro. Per capire il senso di questa affermazione, è utile porsi tre domande.



La prima sorge spontanea: quali sono gli importanti passi in avanti compiuti? Andando con ordine, il governo, nell’ottica di dare alle imprese un impulso ad assumere e ai lavoratori uno a rimettere in moto i consumi, ha varato due importanti provvedimenti. Con il decreto legge 34 dello scorso 20 marzo, ha eliminato il requisito della causalità del contratto a termine; con il decreto legge 66 dello scorso 24 aprile, ha ridotto l’Irap del 10% e riconosciuto ai lavoratori soggetti a Irpef, con un reddito superiore a 8.000 euro e inferiore a 26.000, un bonus di circa 80 euro in busta paga. I sindacati, dal canto loro, lo scorso 10 gennaio, hanno sottoscritto il regolamento attuativo del protocollo del 31 maggio 2013, affidato alle rappresentanze elette direttamente dai lavoratori (Rsu) un ruolo strategico e perciò restituito ai lavoratori potere decisionale. Un atto di straordinario coraggio, nell’ottica di recuperare rappresentatività dal basso, in senso contrario alla regola del mutuo riconoscimento che, da sola, per tutti i decenni passati, ha dominato il sistema di rappresentanza sindacale.



La seconda domanda, altrettanto spontanea, è: dov’è dunque il problema? Se i due decreti legge vengono letti in combinato disposto, la risposta non è difficile: le misure messe in atto dal governo sono in grado di creare occupazione, ma non di salvaguardarla nel lungo periodo; di incentivare i consumi, ma in percentuali ridotte. Perché le aziende, dopo i tre anni di contratto a termine, non avranno la possibilità di assumere a tempo indeterminato, perché la riduzione dell’Irap messa in atto non è ancora sufficiente a questo fine, né realisticamente ne arriverà un’altra; i lavoratori assunti con il contratto a termine, per il timore di restare alla scadenza del triennio disoccupati, metteranno da parte il bonus di 80 euro piuttosto che investirlo in consumi, arrivando a fine mese con gli stessi sforzi sinora compiuti.



Su queste premesse, l’ultima domanda è: in che modo allora i sindacati possono aiutare a salvaguardare nel lungo periodo l‘occupazione creata dall’esecutivo, a dare più certezze per il futuro ai lavoratori e quindi un impulso ai loro consumi? Con l’intervento di quelle Rsu, di cui il regolamento attuativo dello scorso 10 gennaio ha rinvigorito il ruolo, al fine di realizzare in azienda uno scambio tra diritti e lavoro, potrebbe essere la risposta. Come accade da tempo in Germania, dove i cosiddetti accordi di settore hanno scongiurato importanti crisi occupazionali.

Ad esempio, per cominciare, i sindacati di vertice potrebbero affidare esclusivamente ai sindacati aziendali l’individuazione dei compensi per lavoro straordinario, festivo oppure notturno, in considerazione delle specificità di ogni singolo contesto produttivo e nel solco di un percorso già avviato da qualche anno con alcune misure di detassazione.

Si tratterebbe in fondo, di giocare di squadra perché, come Bauman ha avuto a dire in Una nuova condizione umana (Milano, Vita e Pensiero, 2003), “non ci sono soluzioni individuali a problemi sociali”. Soprattutto, per questa via, il prossimo 1° maggio, forse il Premier non avrà bisogno di inviare a un quotidiano una lettera in difesa dell’azione di governo; i leader sindacali di bacchettarlo dai pulpiti delle piazze; le proteste a Torino saranno meno violente; il Presidente della Repubblica più sereno. E allora il 1° maggio, per qualcuno, tornerà a essere la Festa del lavoro. 

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