L’assunzione di personale a tempo determinato è diventata indubbiamente più semplice con la riforma del contratto a termine introdotta dal Jobs Act (L. 78/2014 che converte in legge il D.L. 34/2014), anche se le nuove disposizioni impongono un cambio di impostazione nella gestione di tale istituto contrattuale di cui è necessario tenere conto in fase di applicazione.



L’innovazione più rilevante è la cancellazione dell’obbligo di indicare nel contratto a termine le esigenze di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che hanno indotto il datore di lavoro ad apporre una scadenza. L’idea sottesa è dare maggior certezza alle imprese che vogliono ricorrere a tale contratto di ingresso per consentire di sfruttare ogni opportunità di aumento di produttività. Se, da un lato, si può quindi assumere a termine senza indicare una specifica esigenza, requisito che come noto ha causato nel tempo la maggior parte dei contenziosi su questo istituto, dall’altro il datore di lavoro, però, nell’utilizzare questa forma contrattuale, deve verificare con maggior cura il rispetto di determinati parametri numerici e di durata.



Per prima cosa, il numero delle proroghe possibili passano da una a cinque “indipendentemente dal numero di rinnovi”. La proroga, ricordiamolo, serve per allungare un contratto a termine prima della sua naturale scadenza. Analogamente al contratto stesso da cui dipendono, anche le proroghe non devono più essere assistite da ragioni oggettive. Se invece il contratto a termine è scaduto e le parti intendono firmarne uno nuovo si deve ricorrere al cosiddetto “rinnovo”, nel rispetto di un intervallo temporale minimo tra un contratto e l’altro.

Si consideri, ad esempio, il caso di un primo contratto a termine con durata di 6 mesi: lo stesso può essere prorogato, facendo però svolgere al dipendente le medesime attività, per ben 5 volte (e come si vedrà fino a un massimo di 36 mesi). Diversamente, qualora l’impresa non sia certa della necessità della risorsa o intenda assegnare mansioni equivalenti o del tutto diverse rispetto alle precedenti, è necessario cessare il contratto alla sua naturale scadenza e proporre un nuovo contratto (rinnovo), dopo 20 giorni di “stop and go”.



Come detto, un secondo limite temporale da tener presente quando si utilizza un contratto a termine è la sua durata massima fissata in 36 mesi, previsione già introdotta dalla Riforma Fornero del 2012. In altri termini, sommando tutti i contratti a termine con lo stesso lavoratore, per mansioni uguali o equivalenti, proroghe comprese fino a un massimo di 5, rinnovi (senza limiti), non possono essere superati i 36 mesi di durata, pena la conversione a tempo indeterminato del contratto a termine.

Su questo aspetto la legge consente alla contrattazione collettiva, a tutti i livelli, di stabilire termini di durata diversi. Quindi, non solo è sempre opportuno verificare sul punto la regola stabilita dallo specifico Ccnl applicato in azienda, ma è anche possibile allungare la durata dei 36 mesi attraverso intese ad hoc con i sindacati presenti in azienda.

È bene ricordare, ma non è una novità del Jobs Act, che al limite dei 36 mesi concorrono anche eventuali periodi di assunzioni “indirette” dello stesso lavoratore con mansioni equivalenti, effettuate per il tramite delle agenzie interinali.

L’ultimo limite numerico introdotto dalla riforma, a fronte dell’eliminazione della causale, è un tetto al numero massimo di contratti a termine utilizzabili. È stato infatti stabilito che il numero complessivo di rapporti di lavoro a termine costituiti da ciascun datore di lavoro non possa eccedere il limite del 20% dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di riferimento. Quindi, se per esempio un’azienda ha 18 contratti a termine a giugno 2015 e contava 100 dipendenti a tempo indeterminato al 1° gennaio dello stesso anno, potrà assumere nello stesso mese di giugno al massimo altri 2 dipendenti a termine. La disposizione di legge che ha introdotto tale vincolo rinvia però a eventuali diversi limiti percentuali stabiliti dalla contrattazione collettiva, solo nazionale (le percentuali di contingentamento dei Ccnl oscillano tra il 7% e il 35%: ad esempio, il Ccnl Commercio, di cui è imminente l’accordo di rinnovo, prevede già un limite generale del 20% e 28% se si considerano anche i contratti di somministrazione, il Ccnl Metalmeccanici non prevede alcun limite). Anche qui, oltre a un’opportuna verifica del Ccnl applicato in azienda sarà ancora più decisivo il ruolo dei sindacati interni all’azienda con i quali sarà possibile, in presenza di delega del Ccnl, negoziare una percentuale diversa.

Rimangono in ogni caso esenti da limitazioni quantitative – nel senso che il Ccnl non può impedire che il datore di lavoro li stipuli – i contratti a tempo determinato conclusi nella fase di avvio di nuove attività per i periodi definiti dai Ccnl, per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità, per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici/televisivi o con lavoratori di età superiore a 55 anni.

La legge ha previsto per il superamento del limite, di legge o di quello diverso stabilito dalla contrattazione collettiva, solo una sanzione amministrativa pari al 20% e al 50% della retribuzione per ciascun mese di durata del rapporto di lavoro, se il numero di lavoratori assunti in violazione del limite sia, rispettivamente, inferiore o superiore a uno. Inoltre, il datore di lavoro che viola detto limite non può stipulare nuovi contratti a tempo determinato.

Dovrà essere chiarito se la violazione è sanzionata solamente con la sanzione pecuniaria oppure se il giudice potrà adottare la (ben più grave) sanzione della conversione del rapporto a termine stipulato oltre il limite in contratto a tempo indeterminato, dato che questa non è stata esplicitamente esclusa (come invece sarebbe stato utile). Probabilmente il legislatore intendeva dettare un’unica sanzione amministrativa, tanto che negli atti parlamentari al testo in approvazione al Senato si legge: “il testo originario del decreto-legge non prevedeva alcuna conseguenza per il superamento del tetto, mentre nel testo approvato dalla Camera era prevista la trasformazione in contratti a tempo indeterminato”.

L’ultima modifica a immediato (e rilevante) impatto nella gestione del contratto a termine è relativa a una revisione del diritto di precedenza. Si tratta del diritto del dipendente che, dopo la conclusione di un contratto a termine, può richiedere di essere ri-assunto, in presenza di determinate condizioni, dallo stesso datore di lavoro che intenda procedere, entro 12 mesi dalla cessazione del suddetto contratto, a un’assunzione a tempo indeterminato per le medesime mansioni.

Per esercitare tale diritto il lavoratore a termine deve aver prestato – a favore della medesima impresa – attività lavorativa per più di 6 mesi, anche cumulando due o più successivi contratti a termine e deve farsi parte attiva, segnalando la propria intenzione in merito al ricorso al diritto di precedenza entro 6 mesi dalla cessazione. Il Jobs Act modula questo diritto di precedenza in maniera ancor più favorevole per lavoratrici che abbiano fruito del congedo di maternità (di norma 2 mesi prima e 3 mesi dopo il parto), per le quali tale periodo concorre a determinare il periodo di attività lavorativa utile a conseguire il diritto in parola.

Alle medesime lavoratrici è altresì riconosciuto il diritto di precedenza anche nelle assunzioni a tempo determinato (e quindi non solo per le nuove assunzioni a tempo indeterminato) effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi, sempre con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei precedenti rapporti a termine. Tutte le regole descritte sono applicabili in assenza di diverse regole fissate dai contratti collettivi di qualsiasi livello. Ciò significa che il legislatore, pur mantenendo un regime legislativo in materia di diritto di precedenza, ha voluto lasciare alle parti (aziende e sindacati) la possibilità di individuare una diversa disciplina in funzione della specifica realtà aziendale o di settore.

Ricordiamo che per il lavoratore stagionale il diritto di precedenza si modula in modo un po’ più semplice: non è previsto alcun requisito quantitativo di anzianità pregressa; inoltre si deve trattare delle medesime attività stagionali e le nuove assunzioni devono essere a termine entro 12 mesi dalla cessazione dell’avente diritto, con esclusione quindi di qualsivoglia obbligo in capo al datore che intenda, invece, procedere a un’assunzione a tempo indeterminato. Anche qui è il lavoratore che deve farsi parte attiva, segnalando la propria intenzione in merito al ricorso al diritto di precedenza, entro 3 mesi però dalla cessazione. Al ricorrere di tutte le condizioni previste dalla legge, il diritto di precedenza è un vero e proprio diritto soggettivo in capo al lavoratore, dal che discende, con qualche probabilità che, in caso di violazione, il datore potrà essere chiamato a risarcire il danno derivante dall’omessa tempestiva assunzione.

Con il Jobs Act, per legge, il diritto di precedenza deve essere espressamente richiamato nel contratto di assunzione a termine. È quindi necessario integrare la lettera di assunzione richiamando la disciplina normativa del diritto di precedenza, nonché quella della contrattazione collettiva, se esistente e, ritengo, se si tratta di lavoratrice anche il descritto beneficio per il caso di congedo di maternità. La legge non chiarisce quale sia la conseguenza se il datore di lavoro non adempia a questo obbligo informativo, verosimilmente anche in questo caso si può immaginare un’azione di risarcimento del danno.

L’obbligo di richiamare, da parte del datore di lavoro, già all’atto dell’assunzione, il diritto di precedenza (riteniamo in ogni caso, anche ove il contratto a termine sia stipulato per brevi durate) comporterà certamente un aumento delle “prenotazioni”, ossia delle manifestazioni di volontà relative al diritto di precedenza da parte dei lavoratori.

Da quanto brevemente esposto emerge che su alcune novità (ad esempio, sanzioni per il superamento dei limiti percentuali o per l’omessa informativa) la legge si presta a diverse interpretazioni: da qui l’auspicio che il legislatore stesso ne prenda atto e intervenga con i necessari chiarimenti che non possono essere demandati a semplici circolari attuative del ministero del Lavoro, insufficienti a rendere certo un principio, soprattutto dinanzi a un giudice. Ove possibile dovrebbe poi essere la contrattazione collettiva ad adattare le singole disposizioni alle esigenze delle realtà di settore, a livello territoriale e aziendale.

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