Sabato scorso a Venezia, in occasione del Workshop del Consiglio per le relazioni Italia-Usa, Sergio Marchionne ha rilasciato delle dichiarazioni a Sky Tg24, auspicando che quanto Fiat ha fatto sul contratto possa diventare “un modello per un’Europa e un’Italia nuova, che cominci ad affrontare la concorrenza in una maniera aperta”, e aggiungendo che “Fiat è stata costretta a fare delle scelte, non può più essere limitata da rimasugli di accordi nazionali che ormai una multinazionale che ha 300 mila dipendenti in tutto il mondo non può più gestire”.



L’ad di Fiat-Chrysler ha ricordato poi che, non a caso, anni fa l’azienda torinese ha deciso di uscire da Confindustria e “di fare accordi sindacali direttamente con i rappresentanti dei nostri lavoratori”, indicando in questo modello quello adatto per il futuro dei rapporti sindacali. È chiaro che per stipulare contratti aziendali non è necessario uscire da Confindustria, o da altra confederazione, ma le parole di Marchionne suonano interessanti, per diversi motivi: in primis, il manager italo-canadese sta tranquillizzando circa il rinnovo del contratto, considerata infatti l’inaspettata frenata che vede le parti e l’azienda arenate sugli aspetti economici dei negoziati. È anche vero che non è dato sapere se sarà l’azienda a cedere alle richieste dei sindacati, o se saranno questi ad avvicinarsi a ciò che l’azienda ha proposto. In secondo luogo, benché in Europa contratti del genere già ne esistano (in particolare, in Germania e in Spagna, ma anche in Svizzera), non c’è dubbio che un contratto aziendale come quello Fiat che porta con sé un’indubbia innovazione e che riguarda, solo in Italia, oltre 80.000 dipendenti, sia definibile “best practice” a livello europeo. In Germania non si pagano retribuzioni inferiori rispetto a quelle italiane, eppure il contratto aziendale può determinare anche il trattamento dei lavoratori.



Il contratto nazionale in Italia continua a stabilire i minimi salariali, quando questi minimi saranno sempre alti per la Campania e bassi per la Lombardia, dove è chiaro che, ad esempio, il solo costo della vita è molto differente. Serve attrarre gli investitori e, in particolare, la possibilità di sviluppare piani industriali innovativi, che per lo più, possono essere sviluppati dalle multinazionali.

A riguardo, circolano idee differenti: quella di Marchionne (che il giuslavorista Pietro Ichino avanzava con molta fermezza già dieci anni fa – si veda in merito “A cosa serve il sindacato?”), che vede nella contrattazione aziendale il mezzo per attrarre investimenti e crescere produttività; e quella di ambienti sindacali/datoriali che invitano alla calma circa questa enfasi che viene posta sulla contrattazione di secondo livello: a detta di questi ultimi, le aziende e multinazionali straniere non per forza vedono male il contratto nazionale; anzi, questo risolverebbe loro molti problemi.



Se si considerano i numeri del sistema confindustriale, solo il 30% delle imprese – che tuttavia rappresenta il 65% dell’occupazione – stipula un contratto aziendale. Considerando che il nostro sistema produttivo nel 98% è composto da Pmi, ne consegue che i dati di Confcommercio e Confartigianato fanno certamente scendere quel 30% di Confindustria. Quindi è chiaro che, nella stragrande maggioranza dei casi, il contratto nazionale del lavoro è cosa utile. Vien da pensare, comunque, che Marchionne e Ichino non abbiano tutti i torti, ma il problema è un altro: al di là di chi ha ragione o meno, è utile capire se le multinazionali sono, se lo vogliono, nella condizione di negoziare un contratto aziendale a loro conveniente, ove per conveniente si intende se in Italia c’è sufficiente flessibilità circa la derogabilità che la contrattazione aziendale può esprimere.

Il problema dei minimi salariali è esempio non di poco conto. Lo stesso Pier Paolo Baretta, Sottosegretario all’Economia, pur criticando le parole di Marchionne, non ha mancato di dire che “serve definire meglio il ruolo del contratto aziendale e quello della contrattazione nazionale”. Si tratta, infatti, di uno dei temi caldi del nostro lavoro e della nostra economia. Ma, detto questo, la contrattazione aziendale è solo uno dei fattori che può facilitare gli investitori. Pesano sempre sulle imprese, soprattutto, un gettito fiscale altissimo e un codice del lavoro oggi per molti aspetti incomprensibile: gli investitori stranieri non sono attratti da un mercato dove la certezza del diritto viene meno in relazione a tanta complessità.

Intanto, il Consiglio di amministrazione di Fiat Spa ha approvato il progetto di fusione transfrontaliera che disciplina la fusione per incorporazione di Fiat nella società sua controllata interamente posseduta Fiat Investments N.V. Tale società, costituita in Olanda, al completamento della fusione prenderà il nome di Fiat Chrysler Automobiles N.V. (“FCA”). Per effetto della fusione, FCA diventerà la società holding del gruppo.

 

In collaborazione con www.think-in.it