Quando domenica ho partecipato alla Scala alla cerimonia del Premio Milano Produttiva sapevo già di dover preparare un commento sulla riforma della Pubblica amministrazione. Milano Produttiva è il riconoscimento con cui la Camera di Commercio del capoluogo lombardo premia sia le imprese che operano da oltre 20 anni, sia i lavoratori che hanno una pari anzianità nella stessa azienda. La Scala era piena di gente, erano il vero volto del popolo di Milano. Quelli che ogni mattina hanno una ragione per alzarsi, rimboccarsi le maniche e mettersi a lavorare. Erano tutti eleganti, non la moda dell’appariscenza ma il vestito della festa con cui si onorano le cerimonie importanti della famiglia e della società.
Guardando questa platea mi chiedevo: ma cosa chiederebbero a una riforma della Pa, qual è l’aspettativa per un reale cambiamento del settore pubblico? Certo, questa è la Milano che è orgogliosa di Expo 2015 sia perché ambisce a essere magari fornitore, sia soprattutto perché è orgogliosa del mondo che verrà a vedere la sua città. Per questo è rimasta male per gli scandali e chiede quindi più attenzione contro la corruzione. Ma è anche una parte di quei produttori che sanno bene che di controlli si può anche morire. Già oggi per le gare pubbliche i costi dei controlli, delle certificazioni, ecc. sono pesanti e non garantiscono efficienza ed efficacia delle scelte. Nessuno di loro per fare lavori per la propria casa applicherebbe il massimo ribasso o misure simili, certo però uno si occuperebbe degli acquisti e non attraverso più uffici acquisti non coordinati nelle valutazioni.
Per dirlo in una battuta, credo che ciò che più ci si aspetti è che la riforma restituisca al cittadino il ruolo di padrone dei servizi pubblici, la chiarezza e la consapevolezza che quando si va in un ufficio pubblico si debba poter esercitare i propri diritti e che non si sia sudditi di regole astruse interpretate, talvolta in modo aggressivo, dal casuale impiegato con cui ci si trova ad avere a che fare.
Questa aspettativa non è proprio il tema principale che è stato avanzato nei commenti di questi giorni, eppure è la questione su cui avremo tutti la percezione di un cambiamento vero che restituirà al pubblico la consapevolezza dei servizi che ottiene dalla struttura dello Stato. Le valutazioni su produttività, efficienza ed efficacia di quanto viene fornito dalla Pa dovrebbero quindi essere guida di tutto l’impianto della riforma.
Ogni ufficio deve sapere qual è il suo compito produttivo e se fosse valutato avrebbe interesse a sviluppare i sistemi informativi che permettano il massimo dell’accesso ai documenti, la smaterializzazione di molti suoi compiti e l’accesso diretto ai dati da parte dei cittadini. Si lavorerebbe meno e meglio e non si chiederebbero più le certificazioni di dati che sono già patrimoni di banche dati pubbliche obbligando a continue duplicazioni degli stessi.
Rispetto a questi aspetti è prevalsa l’attenzione a questioni più legate all’occupazione, sia per aspetti quantitativi che qualitativi. Sempre più la diversità di trattamento che i dipendenti della Pa hanno rispetto alla restante parte dei lavoratori appare anacronistica. Più i dualismi dei nostri mercati del lavoro si accentuano e meno tollerabile appare un modello unico nazionale con accesso per concorso, stabilità a vita, mobilità solo volontaria e stipendi livellati che penalizzano chi opera in zone con costi della vita maggiori.
L’obiettivo non è solo quindi operare tagli dovuti ai risparmi di spesa pubblica pur necessari. Si tratta di dare maggiore soddisfazione a chi opera nella Pa attraverso ristrutturazioni e innovazioni tecniche e organizzative per fare meglio il proprio lavoro assicurando quella mobilità che permetterebbe di mantenere i servizi su tutto il territorio.
Già oggi i processi di riforma degli Enti locali e nuove esigenze di servizio delle grandi strutture pubbliche (dalla scuola all’esercito, dalla sanità all’Inps) pongono il problema di una redistribuzione territoriale di personale e competenze. I tentativi di mobilità volontaria hanno avuto poco successo anche se già oggi prima di avviare una selezione pubblica i diversi Enti sono tenuti a chiedere se vi sono candidati fra i dipendenti della Pa a livello nazionale. Non si sono però mai applicati criteri, ad esempio, di tipo privatistico, che potrebbero supportare le nuove esigenze garantendo il mantenimento dei posti di lavoro.
Prendendo spunto da altri paesi si può vedere come in Francia il processo di mobilità in uscita nelle forze armate è stato organizzato con il supporto di una società specializzata in ricollocazione di personale che ha seguito la valutazione delle competenze, la formazione di chi all’interno doveva gestire i processi e quindi ha organizzato i percorsi di formazione e ricollocazione lavorativa.
I percorsi di fusione dei piccoli comuni e il superamento delle province produrranno in piccolo esigenze simili. Già ora ci si dovrebbe attrezzare coinvolgendo operatori che hanno sviluppato queste competenze nel settore privato e avviare le prime sperimentazioni per poi affrontare a livello di sistema una nuova mobilità nella Pa.
Nei temi presentati dal governo si è inoltre sottolineata la volontà di intervenire con iniziative di conciliazione famiglia-lavoro. La centralità della persona che trova valorizzazione in questi interventi è da salutare come principio di un cambio di mentalità che, con l’esempio diffuso dalla Pa, potrà diventare ancora più centrale per interventi diffusi sul territorio che coinvolgano tutti i settori produttivi.
Ciò, se finalizzato anche ad assicurare orari ai servizi pubblici più funzionali a quelli degli utenti, sarà uno dei casi importanti di esperienze win-win che permetteranno di leggere la riforma come un nuovo modo di assicurare i servizi pubblici restituendo al pubblico, i cittadini, la coscienza di avere dei servizi utili e non di essere al servizio dello Stato.