Il pragmatico (inteso come complimento) ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha ribadito l’altro giorno che uno dei capisaldi del Jobs Act “sarà la riforma degli ammortizzatori, che introdurrà un profondo cambiamento attraverso la chiara idea di passare dalle politiche passive del lavoro a quelle attive”, con l’attenzione che “nel momento in cui ci saranno gli obblighi, ci saranno anche le sanzioni. Altrimenti non sono obblighi, ma inviti”.



Effettivamente l’articolo contenente i criteri di delega in materia di ammortizzatori sociali è uno dei due più delicati tra i sei che compongono la bozza di disegno di legge delega n. 1428 in discussione presso la commissione Lavoro del Senato. L’altro è l’articolo 4, dedicato al riordino delle forme contrattuali, campo di battaglia per chi vorrà occuparsi di contratto unico, flessibilità in entrata, demansionamento e articolo 18. Si tratta di argomenti mediaticamente più noti e tecnicamente più comprensibili rispetto alla complessità, anche normativa, delle politiche passive. Eppure anche su queste ci saranno duelli politici di uguale violenza.



Al netto delle necessarie esigenze di protezione dei soggetti più deboli (ma qui si sconfina nelle politiche sociali), lo scontro di fondo è tra due visioni: la prima che intende gli ammortizzatori sociali come una protezione essenzialmente assicurativa e non assistenziale. Si prende in proporzione di quanto si è versato, quindi, e per il minor tempo possibile, visto che l’obiettivo è la riattivazione della persona prima che il suo mantenimento. La seconda, di impostazione più assistenzialistica, è preoccupata di garantire un reddito minimo a tutti, meglio se autofinanziato, certamente, ma anche a fondo perso (“in deroga”), in ragione dell’importanza sociale delle politiche passive.



Il testo della delega, nella sua eccessiva vaghezza, alterna principi di entrambe le filosofie, pur sbilanciandosi più verso la natura assicurativa delle politiche passive (non foss’altro per banali motivi di bilancio). Si prospetta addirittura un maggiore coinvolgimento delle imprese, quindi un innalzamento del costo del lavoro. Contemporaneamente, si immaginano una universalizzazione dell’Aspi e misure speciali per i disoccupati a basso Isee che abbiano esaurito i trattamenti di sostegno al reddito.

In mezzo a questa incertezza è invece chiara l’indicazione ribadita dal Ministro sul maggiore legame tra politiche attive e passive. Principio giusto e attuato con successo in tutti i principali Stati europei. Non si tratta però di un’idea nuova: esistono nel nostro diritto fin troppi strumenti con i quali si potrebbe sanzionare il soggetto percettore di sussidi che non si attiva. Resta quindi da chiedersi perché siano sempre rimasti lettera morta e su cosa fare leva per rendere operativo ciò che per ora è solo teoria.

La risposta non è da ricercarsi nell’imperfezione delle norme, ma nel radicamento di atteggiamenti assistenzialistico-sindacali che vanno contrastati anche culturalmente, perché si compia quel “cambiamento radicale” che si augura il Ministro.

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