Il governo Renzi ha avviato una riforma della Pubblica amministrazione. Questo è un bene. Con ragione quasi tutti gli ultimi governi si sono cimentati in questa impresa. La Pubblica amministrazione italiana deve essere riformata e deve diventare più meritocratica. Non facciamoci illusioni. Sono le società meritocratiche che generano pubbliche amministrazioni meritocratiche e non viceversa. E su questo nella nostra comunità c’è molto da fare, sia nella sfera pubblica che in quella privata, come purtroppo ci ricorda troppo spesso la cronaca.
La battaglia è comunque una di quelle che vale la pena combattere e chi ha l’onore e l’onere di gestire la repubblica (e cioè i nostri beni comuni, come la definivano in modo molto pratico gli antichi romani) deve farlo con merito e per il merito. È una questione di leadership e di esempio. Per dare un voto “meritocratico” alla riforma Renzi dobbiamo in primis definire cosa intendiamo per “meritocrazia”.
Per meritocrazia intendiamo una comunità che si regge su e in cui sono forti, insieme ad altri, i seguenti pilastri: (1) libertà di poter esprimere e vedere riconosciuti i propri talenti, (2) eguaglianza delle opportunità, e (3) utilizzo del merito individuale, definito come l’insieme di talento e impegno, come criterio fondamentale per l’attribuzione di premi, riconoscimenti e responsabilità.
Quando diciamo che si deve usare il merito come criterio per l’attribuzione di premi e responsabilità ovviamente intendiamo anche che si devono ripudiare radicalmente discriminazioni, corruzioni, opacità, non rispetto delle regole, risme, familismi e consorterie di vario tipo i quali, oltre a essere cose cattive per tanti altri validi motivi, hanno anche il problema di distorcere in senso anti-meritocratico i meccanismi decisionali e quindi di distruggere alla base le fondamenta di una possibile e auspicabile società meritocratica.
La Pubblica amministrazione italiana oggi è anti-meritocratica (invece che pro-meritocratica come dovrebbe e potrebbe essere) per tre motivi:
1) È troppo pesante, sia in termini di costi (tasse) che in termini di irrigidimenti imposti alla società (lacci, obblighi, procedure e banalmente tempi persi in astruse pratiche burocratiche e visite agli uffici) e pertanto agisce più da elemento di soffocamento che di supporto alla libertà dei singoli di poter esprimere i propri talenti;
2) Spesso non attribuisce riconoscimenti e responsabilità in base al merito. Anzi a volte sembra proprio fare il contrario (nomine per appartenenza a consorterie spesso opache; nessuna sanzione per la mancanza di impegno – vedi vecchio tema dei “fannulloni”; appalti assegnati a imprese che ripetutamente non rispettano tempi di consegna e costi promessi; ripianamento del deficit ad enti inefficienti e non incentivi a enti migliori);
3) È discriminatoria. Ha creato per se stessa e per i propri dipendenti un sistema di regole diverse da quelle che si applicano agli altri cittadini (dall’inamovibilità dei dipendenti, agli stipendi fuori mercato dei dipendenti della Camera dei deputati e del Senato ai meccanismi di licenziamento e cassa integrazione da cui è protetta e che invece gli altri cittadini devono rischiare o subire). Oltre a un tema di “giustizia sociale” o di “level playing field” come direbbero all’Economist, questo è tanto più grave in quanto costruisce nei fatti due mondi diversi – “il pubblico” e “il privato” – che impedisce quell’osmosi di competenze e comunicazione che invece sarebbe tanto necessaria per arricchire entrambi i mondi.
La proposta riforma Renzi affronta e ha la possibilità, se non di risolvere, almeno di migliorare la situazione su tali tre fronti? Sicuramente i temi giusti sembrano messi al centro, ma con alcune aree di rischio.
Vediamo i lati positivi. C’è sicuramente nelle intenzioni uno sforzo per la riduzione del peso dell’amministrazione sulla società. Vi è, ad esempio, tutto un capitolo “semplificazioni” e “accorpamenti”, alcune tutte interne all’amministrazione (“riordino della disciplina del lavoro all’interno delle pubbliche amministrazioni”, “riordino della disciplina delle partecipazioni pubbliche”, “conferenza di servizi”, “accorpamento scuole di formazione”), altre con impatti più diretti sulla società (“controlli amministrativi”, “camere di commercio”, “semplificazione amministrativa e moduli standard”).
Come già accaduto in passato, il rischio qui è che si sta tentando di migliorare il modo in cui l’amministrazione opera, quando invece spesso il problema è che alcune cose non dovrebbero essere eseguite meglio, ma semplicemente non eseguite o eseguite da qualcun altro (vedi, ad esempio, alcune attività svolte dalle partecipate pubbliche, oppure l’iscrizione alle camere di commercio per le imprese, che semplicemente dovrebbe essere resa volontaria, invece che obbligatoria, fatto salva la comunicazione di dati eventualmente necessari a chi di dovere).
Sul fronte della discriminazione tra pubblico e privato vi sono segnali contrastanti. Da un lato si abbattono i “dogmi” della non licenziabilità e inamovibilità dei dipendenti pubblici. Questo è un bene. Dall’altro si introducono nuove discriminazioni (“misure in materia di part-time e trattamento di quiescenza” e “promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche”) che continuano ad allontanare i due mondi. Discutibile è anche l’utilizzo di forme di concorso pubblico (per esempio, in sanità), ancora di più centralizzate e a cadenza annuale, che cercano di imporre ritmi, riti e cadenze ormai superate nel mondo privato.
Per quanto riguarda l’attribuzione delle responsabilità e della leadership all’interno della Pubblica amministrazione in base al merito individuale (talento+impegno) vi sono mosse interessanti, probabilmente astruse ai più, alcune ancora peraltro da confermare al momento della scrittura di questo articolo (quasi a riprova che si tratta di elementi sensibili). Si tratta del “silenzio assenso negli atti di competenza di diverse amministrazioni statali”, della “incompatibilità dei magistrati” e del “ruolo unico” per i dirigenti della amministrazione.
La prima (“silenzio assenso”) fissa tempi stringenti per le modalità con cui le diverse amministrazioni dialogano tra di loro e centralizza sul Presidente del Consiglio la risoluzione delle controversie. Si creano in questo modo i presupposti per la creazione di una vera “delivery unit” (unità di implementazione), una proposta già avanzata nel libro “Meritocrazia” del 2008.
La seconda (“incompatibilità dei magistrati”) riuscirà (forse) a eliminare un retaggio addirittura monarchico nella nostra amministrazione, secondo il quale i capi delle strutture ministeriali (capi di gabinetto) provengono dai ranghi della magistratura amministrativa (Tar e Consiglio di stato) che giudica sulla legittimità delle loro azioni, con rischio (anzi purtroppo certezza) di assoluta auto-referenzialità di tale gruppo: una deriva “consortile” invece che meritocratica delle decisioni.
La terza (“ruolo unico”) – una proposta già inserita nel libro “Meritocrazia” del 2008 – sarà utile se propedeutica alla creazione per i dirigenti della Pubblica amministrazione di un vero e proprio piano di carriera meritocratico secondo le migliori pratiche professionali internazionali nei settori pubblico e privato (tra cui la mobilità geografica e tra i ruoli).
La meritocrazia non si fa infatti solamente con le sanzioni minacciate (il licenziamento), che ci devono essere, ma anche con il riconoscimento del merito ai migliori e il loro posizionamento in ruoli di responsabilità. Mancano ancora nella riforma l’idea e la visione dello sviluppo di una forza d’urto di leadership all’interno della amministrazione (“mille leader per la Pubblica amministrazione”, secondo una delle proposte di “Meritocrazia” e di questo Forum), selezionata, formata e seguita nel tempo secondo i citati migliori standard professionali ed internazionali. Si cita la possibilità di introdurre 15 mila nuovi giovani come fattore di grande innovazione, ma non si delineano ancora piani per come farne diventare almeno una parte veri “campioni del cambiamento”, cosa che sarebbe possibile coinvolgendo soggetti nuovi provenienti dalle migliori esperienze professionali.
La Pubblica amministrazione non diventerà meritocratica con il cacciavite, ma quando riusciremo a creare tale forza d’urto di cambiamento, partendo dalle “delivery unit” presso la Presidenza ed arrivando ai “mille leader per la Pubblica amministrazione”. Come per la Pubblica amministrazione, la nostra società diventerà meritocratica quando al suo interno si formerà una forza d’urto di persone di talento che sono disposte a impegnarsi, mettendo parte di questi propri talenti a disposizione degli altri.
Claudio Ceper, Presidente Forum della Meritocrazia
Mattia Adani, Consigliere
Nicolò Boggian, Direttore