Dopo quasi due settimane di gestazione, finalmente vede la luce la seconda “grande” riforma del governo Renzi dopo quella sul lavoro. L’altra notte, infatti, sono stati firmati da Napolitano due decreti legge, il primo, n. 90/2014, sulla riforma della Pubblica amministrazione, e il secondo sulla “competitività” delle imprese, che afferisce alcune norme sull’agricoltura e l’ambiente, nonché il taglio della bolletta energetica. Le misure previste dalla riforma, declinata in 53 articoli, non presentano sorprese rispetto a quanto già previsto nel disegno riformatore del 13 giugno.
In particolare, l’intento del governo è quello di procedere a un contenimento della spesa e a un ricambio generazionale all’interno della Pubblica amministrazione; intenti certamente lodevoli, anche se realizzati con una mano non del tutto felice e che per trovare concreta applicazione dovranno passare al vaglio della concertazione sindacale.
In primo luogo, viene abrogato il trattenimento in servizio che consentiva di allungare la permanenza in attività una volta raggiunta l’età pensionabile. Da tale misura vengono esclusi i militari, e i magistrati godranno di una dilazione sino alla fine del 2015. Questo provvedimento dovrebbe consentire, secondo stime che non appaiono dettate dalla prudenza, quanto piuttosto dall’entusiasmo, un incremento dell’occupazione di circa 15.000 posti nell’arco di un triennio. La previsione pare ottimistica anche considerato che il limite (di spesa, non di teste) alle assunzioni per le amministrazioni centrali resta al 20% delle uscite per il 2014, 40% per il 2015, 60% per il 2016 e 80% per il 2017.
Il cuore del provvedimento sotto il profilo giuslavoristico è costituito dagli artt. 4, 5 e 7 del Decreto Legge in parola. L’art. 7 in tema di diritti sindacali prevede un taglio del 50% dei distacchi e dei permessi sindacali, con un risparmio che, stando alle fonti sindacali, non dovrebbe superare i 25 milioni di euro, cifra effettivamente bassa che non giustificherebbe l’attrito che la norma provocherebbe. Diversamente il governo parla di cifre molto più consistenti, intorno al centinaio di milioni.
La mobilità obbligatoria di cui all’art. 4, vede confermato il raggio di spostamento di 50 km. Entro tale limite il dipendente pubblico sarà obbligato a spostarsi ad altra sede a semplice richiesta del datore di lavoro. Ciò in ossequio all’equiparazione che la norma fa tra il concetto di unità produttiva ex art. 2103 c.c. e uno spostamento contenuto nell’arco dei citati 50 km. Tale conferma, insieme a quella della forte riduzione nell’esercizio dei diritti sindacali, di cui si è detto, non mancherà di creare un attrito sociale che già in queste ore sta mostrando le prime avvisaglie alla luce delle reazioni negative dei sindacati.
Il comma n. 2.2 del citato art. 4, con una forma ridondante ma significativa, afferma che “sono nulli gli accordi, gli atti o le clausole dei contratti collettivi in contrasto con le disposizioni di cui ai commi 1 e 2.” In altre parole, il legislatore tenta di elidere il confronto sindacale in punto di mobilità, cosa che al contrario, a parere di chi scrive, sarà imprescindibile per la concreta attuazione della riforma.
L’art. 5 poi prevede che il personale in disponibilità possa domandare all’amministrazione di appartenenza di essere ricollocato, in deroga all’articolo 2103 del codice civile, “nell’ambito dei posti, vacanti in organico, anche in una qualifica inferiore o in posizione economica inferiore della stessa o di inferiore area o categoria”. Il fine dichiarato della norma è dunque quello di favorire la ricollocazione del personale in disponibilità.
Quest’ultima previsione finalizzata alla massimizzazione dell’occupazione potrebbe creare qualche perplessità sulla deroga al principio di equivalenza delle mansioni, ma si deve tenere presente che un principio analogo, di matrice giurisprudenziale, vige nel settore privato in tema di repechage nell’ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Da ultimo, la riforma prevede un taglio drastico ai compensi degli avvocati dello Stato, con una riduzione dal 75% al 10% delle spese liquidate in caso di vittoria. Nessun compenso professionale sarà dovuto invece in caso di compensazione delle spese o di soccombenza.
In definitiva, si può affermare che la riforma miri al contenimento dei costi e all’incremento dell’occupazione, ma tale programma sarà concretamente attuabile solo all’esito di un confronto tra Pubblica amministrazione e sindacati. Le parti sociali, quindi, dovranno guardare oltre l’interesse particolare con atteggiamento maturo per addivenire a un componimento dei loro contrapposti, almeno formalmente, interessi.