Il lavoro è sempre più un’emergenza nel nostro Paese, come hanno evidenziato gli ultimi dati Istat diffusi martedì. E il lavoro, secondo Matteo Renzi, è la madre di tutte le battaglie. Dopo l’ottimo risultato ottenuto alle elezioni europee, il Premier si prepara a rimettere in moto la macchina delle riforme. Il decreto Poletti è già stato convertito in legge e, attraverso il disegno di legge delega, l’esecutivo potrà presto dare forma all’annunciato Jobs Act, uno dei cavalli di battaglia del segretario del Pd. Abbiamo fatto il punto della situazione con Stefano Colli-Lanzi, Ceo di Gi Group e Presidente di Gi Group Academy.



L’esito del voto europeo potrebbe spingere Renzi a proseguire il percorso di riforma del mercato del lavoro. Come giudica per il momento il Jobs Act?

Credo che siamo di fronte a una nuova opportunità per compiere un percorso in grado di rendere maggiormente organico il nostro mercato del lavoro. Di certo ci si sta muovendo verso una maggior flessibilità, eliminando complicazioni e incertezze e spingendo così il Paese verso una ripresa economica. Vorrei sottolineare che la flessibilità verso cui ci si muove è “buona”, cioè è combinata con una sicurezza per imprese e persone, facilitando l’abbandono e il contrasto all’utilizzo di strumenti di flessibilità impropria, quella che, se mal utilizzata, genera la vera precarietà (collaborazioni, contratti a progetto, false partita Iva, associazioni in partecipazione, ecc.).



Lei ha parlato di eliminazione di complicazioni e incertezze. Su quali punti in particolare?

L’eliminazione della causale dalla somministrazione a tempo determinato e dal lavoro a termine ridurrà sensibilmente il numero di contenziosi inutili. Inoltre, le nuove norme sull’apprendistato ne dovrebbero rendere più facile l’utilizzo, così che possa diventare finalmente il contratto di inserimento dei giovani nel mondo del lavoro.

Durante l’iter di conversione in legge, il decreto Poletti è stato modificato più volte sul punto delle proroghe consentite nel contratto a termine, passate dalle otto originarie per ogni singolo contratto a termine alle cinque complessive nell’arco dei 36 mesi del testo finale. Cosa ne pensa?



Trovo che sia stata una modifica ragionevole e ampiamente comprensibile, tenuto conto che una direttiva europea sui contratti a termine impone una serie di limiti per evitarne l’abuso da parte delle imprese. Un problema che non sussiste per il lavoro in somministrazione, considerato dalla disciplina comunitaria un contratto capace di rispondere non solo alle esigenze di flessibilità delle imprese, ma anche a quelle dei lavoratori, realizzando così quella flexecurity di cui tanto si parla e che è sempre più necessaria per il nostro mercato del lavoro.

Di fatto le imprese si troveranno nella possibilità di scegliere tra contratto a tempo determinato e somministrazione. Che differenza troveranno tra questi due strumenti?

Come dicevo prima, il decreto Poletti ha riconosciuto al contratto in somministrazione un valore superiore rispetto a quello a termine. Di conseguenza non trovano applicazione né il limite del 20% di utilizzo rispetto al numero dei lavoratori a tempo indeterminato assunti, né quello dei 36 mesi di durata massima. A questo proposito va ricordato che non è previsto alcun limite di durata al rapporto tra azienda utilizzatrice e lavoratore in somministrazione e che non c’è alcun obbligo di stabilizzazione: è previsto solo un limite di sei proroghe per ogni nuovo contratto. Inoltre, non c’è alcun periodo di “stop and go” tra la stipula di un contratto e l’altro e non sussiste un diritto di precedenza dei lavoratori nelle assunzioni a tempo indeterminato.

 

Così sembrerebbe quasi di essere in una situazione migliore per le imprese, ma peggiore per i lavoratori.

Non è assolutamente così, perché rispetto al tempo determinato, la somministrazione offre più tutele ai lavoratori che, assistiti dalle Agenzie per il lavoro, allo scadere del contratto possono accedere velocemente ad altre opportunità presenti nel mercato e a uno specifico sistema di welfare: ad esempio, alla formazione garantita da Formatemp, capace di aumentarne significativamente l’occupabilità e, dunque, la continuità professionale.

 

Tra poco comincerà la discussione in Parlamento della legge delega che dovrebbe completare il Jobs Act. Cosa si augura che venga deciso?

Il percorso verso la buona flessibilità potrebbe essere portato a compimento ridando centralità al contratto a tempo indeterminato, attraverso le cosiddette tutele crescenti. In caso di interruzione del rapporto di lavoro, all’ex dipendente verrebbe quindi corrisposta un’indennità proporzionata all’anzianità di servizio, unitamente a un supporto alla ricollocazione. Sarebbe in questo modo possibile ridisegnare il mercato del lavoro, sorretto da quattro pilastri.

 

Quali?

Il primo è il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti appena illustrato, che diventerebbe la scelta principale delle aziende per assumere. Poi avremmo il contratto a tempo determinato, cui dovrebbe essere ridotto il numero di proroghe, così che diventi un vero contratto “temporaneo”, lasciando la gestione della flessibilità alla somministrazione, che come ho spiegato prima fornisce delle buone garanzie per il lavoratore. Infine, avremmo il contratto dei giovani, ovvero l’apprendistato, che dovrebbe essere reso ancora più flessibile e conveniente, così da diventare il collegamento tra il mondo dell’istruzione e quello del lavoro.

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