Il dibattito parlamentare sul disegno di legge delega in materia di lavoro si è avviato e rischia di bloccarsi intorno a un emendamento che propone di ampliare la delega. I fatti si possono riassumere velocemente. Uno dei punti principali delle proposte europee è quello che chiede di armonizzare la legislazione del lavoro (leggi e codici che regolano i rapporti di lavoro) con le regole della flexicurity. Su questo da tempo è stata oggetto di discussione una proposta bipartisan per un codice del lavoro unico e semplificato. Nell’ambito del dibattito in commissione, un emendamento di parte della maggioranza di governo e delle opposizioni propone di inserire nella delega, in modo molto aperto per quanto attiene i contenuti, il tema della semplificazione. A resistere su questo tema sono gli esponenti del Pd.
Politicamente si presenta come un paradosso. Alcuni membri del partito del presidente del consiglio temono che il semplice inserimento del tema nella proposta di delega possa diventare una proposta non accettabile per la loro ideologia del lavoro. Parlo di ideologia del lavoro perché è evidente che siamo di fronte a una resistenza ideologica ai cambiamenti che la flexicurity introdurrebbe nel nostro mercato del lavoro, che è ingessato da norme e vincoli appartenenti a un altro periodo economico.
Come direbbe il vecchio Karl (quello che a sinistra dovrebbe essere conosciuto) “gratta, gratta e trovi il filisteo”. È evidente che nella sinistra italiana l’accettazione di un sistema che sostituisce le vecchie norme che regolavano il lavoro nella fase in cui predominava l’organizzazione industriale dello stesso, con regole che puntano a costruire un sistema di tutele per i lavoratori sul mercato, fa emergere un riflesso pavloviano in chi ritiene che abbandonare una visione del lavoro tradizionale porti a perdere la propria identità. Solo così si spiegano le resistenze che, sia nel mondo politico che in quello sindacale che affondano le loro radici nella sinistra italiana, emergono in occasione delle scelte sul lavoro che la realtà ha imposto in questi anni.
Le norme che regolano e ingessano il nostro mercato del lavoro sono oggi ancora legate a uno schema funzionale al rapporto conflittuale del periodo della grande industria. L’ipotesi era che il sistema industriale avrebbe inglobato gli altri settori e il posto di lavoro sarebbe durato per tutta la vita professionale. Gli strumenti di sostegno al lavoro in caso di crisi erano disegnati per superare la fase di difficoltà dell’impresa (la Cassa integrazione), non mettevano in discussione il rapporto di lavoro ma assicuravano il sostegno al reddito. Questi interventi riguardavano solo gli occupati in imprese di grandi dimensioni e non erano tutele universalmente assicurate a tutti i lavoratori dipendenti.
È evidente che la realtà attuale è completamente diversa. Dal posto di lavoro a vita si è passati a una vita fatta di diversi lavori. La stessa durata delle imprese si è accorciata. La vita media delle imprese iscritte alla Camera di Commercio di Milano è scesa a poco più di 10 anni. Le stesse imprese operano sempre più nell’ambito dei servizi e anche la produzione manifatturiera si caratterizza come una fase interna a un ciclo produttivo terziarizzato. La mobilità sul mercato del lavoro coinvolge ogni anno 10 milioni di persone. Prevale oggi a causa della crisi una mobilità involontaria mentre prima era volontaria, ma resta una domanda di tutele e servizi al lavoro molto diversa da quella delle fasi economiche precedenti.
Adeguarci a quello che chiede l’Europa non è quindi, almeno in questo caso, l’accettazione di vincoli imposti dall’esterno, ma la presa d’atto dei cambiamenti intervenuti nel lavoro e quindi rispondere a nuove realtà con strumenti legislativi, tutele, risorse e servizi che soddisfino adeguatamente il bisogno di lavoro che registriamo continuamente.
A sostegno della resistenza addotta contro la semplificazione legislativa emerge inoltre il timore che si voglia surrettiziamente far passare la proposta di contratto di lavoro a tutele crescenti con la durata del rapporto di lavoro stesso. Su questo tema assistiamo a un vero e proprio cortocircuito della sinistra.
È evidente che l’idea del contratto a tutele crescenti è maturata in una parte più avveduta di esponenti della sinistra che hanno preso sul serio la necessità di sfrondare la pletora di contratti di ingresso che caratterizzano la nostra normativa e sanno che non si può tenere il massimo di flessibilità in entrata insieme al massimo di rigidità in uscita senza creare un grave dualismo negli anni. Il risultato di questa situazione è stato il degenerare di un numero crescente di giovani con contratti senza tutele e un gruppo di lavoratori con contratto a tempo indeterminato con tutte le tutele previste dalla normativa. Un’ingiustizia lampante che richiede un intervento definitivo disegnando un sistema universale di tutele e contratti che sposino la nuova flessibilità del sistema produttivo, la flexicurity appunto.
A sinistra però vi è un tabù, il famigerato articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Per tutti i riformisti questo è un punto d’arrivo ormai datato e che può solo essere ispirazione per disegnare il nuovo articolo 18 che disegni tutele adeguate all’oggi. Per chi vive nell’ideologia è diventato invece la pietra filosofale del lavoro. Senza questo i diritti del lavoro sarebbero immediatamente calpestati da imprenditori che non vedono l’ora di approfittarne per tornare a riportare il lavoro sotto le catene della schiavitù.
Questi guardiani del museo della rivoluzione hanno scoperto che se le tutele contrattuali diventano crescenti si impone di rivedere tutta la normativa. Ma allora dovrebbero tornare a misurarsi con la realtà e non sia mai. Meglio alzare barricate che però invece di indicare un percorso di cambiamento diventano trincee per la più proterva conservazione.
Nel proseguo del dibattito parlamentare vedremo se prevarranno i filistei/conservatori o se il buon senso riformista riuscirà a ottenere la maggioranza. Certo la lucidità di dire chiaramente che insieme alle nuove norme semplificate occorre scrivere un nuovo Statuto dei lavori che proponga diritti e tutele nuovi, adeguati ai cambiamenti avvenuti nella realtà economica, resta uno dei lasciti del Libro bianco preparato da Marco Biagi che è ancora il programma da attuare pienamente per chi ha a cuore i diritti del lavoro che c’è e non vuole inseguire fumisterie ideologiche.