Il Governo prova a rilanciare il contratto di lavoro a tempo indeterminato e, con questo, l’occupazione. Tale obiettivo, di cui si discute alla commissione Lavoro del Senato, dovrebbe essere raggiunto attraverso l’introduzione – eventualmente in via sperimentale – del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, volto a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro.
La proposta caldeggiata da Renzi prevede in pratica la costituzione di un contratto ordinario a tempo indeterminato regolato, con una garanzia di stabilità minima all’inizio del rapporto e, via via con il crescere dell’anzianità di servizio della persona interessata, l’impresa vede aumentare gradualmente anche il costo della separazione, restando ferma l’insindacabilità del licenziamento anche dopo il terzo anno, salvo il controllo giudiziale sulle discriminazioni e rappresaglie. In altre parole, ancora interventi basati sul vecchio tema dell’articolo 18, quindi ancora antiche polemiche e muri ideologici che di sicuro non permettono di avere una legge in tempi brevi.
Una soluzione diversa, più fluida, veloce, può invece essere raggiunta attraverso una norma che permetta di inserire, all’interno di un contratto a tempo indeterminato, una clausola che, entro determinati limiti stabiliti dalla legge stessa, consenta al datore di lavoro un rafforzamento e un’estensione dello ius variandi, ad esempio mediante la modifica unilaterale delle mansioni (anche in deroga all’art. 2103 c.c.), dell’orario di lavoro o della retribuzione.
Detta clausola dovrebbe essere operante solo in presenza di specifiche esigenze produttive, organizzative e/o tecniche a tutela del lavoratore, prevedendo altresì un termine di preavviso prima di disporre la modifica al rapporto di lavoro e in ogni caso non potrà essere utilizzata con specifici soggetti “deboli” quali, ad esempio, lavoratrici madri, disabili, ecc.
Tale proposta potrebbe trovare maggiore partecipazione delle organizzazioni sindacali, e dunque uno sbocco più facile nell’iter parlamentare senza andare a interferire con le modifiche della flessibilità in uscita. La previsione di tale clausola contrattuale consentirebbe inoltre una maggiore progettualità delle imprese, grazie all’ausilio di idonei strumenti che garantirebbero di adattare il proprio assetto organizzativo alle richieste del mercato, con il risultato di tutelare anche la stabilità dei lavoratori.
Fra l’altro, si può anche affermare che i principi che sottendono la flessibilità durante il rapporto di lavoro trovino conforto dalla stessa giurisprudenza più recente. Infatti, si prenda ad esempio la Cassazione del 6 marzo 2007, n. 5112, la quale ha ritenuto legittimo lo ius variandi del datore che, in deroga all’art. 2103 c.c., per evitare il licenziamento, vada a destinare il lavoratore a mansioni inferiori o non equivalenti, quando il lavoratore si dichiara disponibile ad accettarle.
Ovviamente un norma di legge che sia in grado di disciplinare tutti gli aspetti di flessibilità durante il rapporto di lavoro sarebbe in grado anche di superare eventuali contenziosi volti a verificare, come nel caso appena citato, se la modifica delle mansioni possa essere dichiarata legittima o meno. Al contrario l’eventuale attuazione di un contratto a tutele crescenti potrà prevedibilmente comportare un ulteriore abbassamento delle tutele con il conseguente aumento del contenzioso e, dunque, maggiori costi sia per il lavoratore che per l’azienda, senza alcun reale impatto positivo sull’occupazione di lungo termine. Non si potrà dunque pretendere che l’introduzione di una “nuova” figura contrattuale possa essere creatrice di nuova occupazione.
Un’ultima considerazione: la proposta all’esame della commissione Lavoro del Senato si propone inoltre di inglobare nella nuova figura del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti anche a rapporti di lavoro quali le collaborazioni autonome. Dunque quando si parlerà di aumento dell’occupazione, probabilmente sarà opera di un artificio. Ma di questo ne parleremo a settembre, quando i lavori entreranno nel vivo del dibattito.