Quali siano i nodi politici del capo I della legge delega attualmente in discussione al Senato (il cosiddetto Jobs Act) è ben chiaro:

1) riformare le politiche passive in modo che i sussidi siano erogati non più a sostenere per anni posti di lavoro inesistenti, ma vengano dirottati ad aiutare chi perde il lavoro, a condizione che si dia da fare per cercarne uno nuovo;



2) trasferire risorse economiche dalle politiche passive a quelle attive, investendo nei servizi al lavoro.

D’altronde, ce lo scrisse già la Banca centrale europea nella famosa lettera del 5 agosto 2011 (tre anni fa!): “Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori più competitivi”.



Riteniamo relativamente “facile” la riforma degli ammortizzatori sociali: basta volerla fare e, con una buona riforma normativa, si fa. Molto più critica ci appare invece la riforma dei servizi per il lavoro e l’attuazione delle politiche attive. Qui non si tratta solo di cambiare delle regole, ma di mettere in piedi una infrastruttura fisica, fatta di professionisti con specifiche competenze, che siano capaci di supportare le persone nel momento di massimo bisogno erogando validi servizi di ricollocazione.

Per fare un paragone, si tratta di mettere in piedi il sistema sanitario del lavoro, capace di diagnosticare il malessere della persona che si presenta allo sportello, di somministrarle la giusta terapia e di reimmetterla nel circuito produttivo in stato di guarigione. Non si tratta dunque di discutere ideologicamente se le competenze sui servizi al lavoro debbano stare al centro o in periferia, o se questo intervento operativo lo debba fare il pubblico o il privato. Ma innanzitutto di capire cosa bisogna costruire e chi può farlo più rapidamente e meglio.



Oggi è opinione dominante dire che la riforma del titolo V della Costituzione non ha funzionato e pertanto bisogna riportare i poteri al centro. Ma ne siamo proprio sicuri? Non rischiamo così di buttare via il bambino con l’acqua sporca?

Ora, è vero che molte Regioni in questi 13 anni di devoluzione dei poteri in materia di politiche del lavoro hanno fatto poco o nulla. Però non possiamo non vedere che proprio la Regione più avanzata d’Italia, quella più popolosa, produttiva e dinamica ha costruito un sistema di servizi al lavoro misto pubblico-privato che è all’avanguardia in Europa. Perché correre il rischio che un processo di accentramento livelli verso il basso questo sistema di eccellenza? Occorre perciò un approccio pragmatico (che per nostra fortuna al Ministro Poletti non manca), che sia veramente sussidiario.

Vale a dire: lo Stato salvaguardi ciò che funziona bene, e prenda in mano le redini laddove il suo intervento è assolutamente necessario. Si inseriscano nella norma degli indicatori minimi di risultato atteso (per esempio, numero di persone prese in carico, percentuali di persone ricollocate, tempi medi di ricollocazione, etc.), al di sotto del quale la costituenda agenzia nazionale entra in funzione e prende il comando delle operazioni. Paradossalmente, per fare un passo in avanti complessivo, oggi abbiamo bisogno di concedere più poteri alle Regioni che hanno dimostrato sul campo, con i loro risultati, di saper fare bene e più accentramento per quelle che hanno evidenziato di non riuscire a farcela da sole.

Solo così il sistema Paese potrà fare un significativo passo in avanti!

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