“Stiamo valutando anche misure di flessibilizzazione, che però non mettano in discussione le attuali età di pensionamento, nel senso che chi volesse uscire uno o due anni prima verrebbe penalizzato”. Sono le parole del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che ha sottolineato come tra le ipotesi allo studio ci sia anche il “prestito pensionistico”. In pratica il contribuente cui restino da lavorare soltanto due o tre anni riceve un anticipo di 6-700 euro al mese che poi restituirà a rate una volta andato in pensione. Poletti si era detto favorevole anche a un contributo di solidarietà sulle pensioni d’oro per risolvere il problema degli esodati, ma dopo avere atteso due giorni il premier Renzi su questo punto ha deciso di smentire il suo ministro. Ne abbiamo parlato con Luca Spataro, docente di Economia politica all’Università degli Studi di Pisa.



Professor Spataro, partiamo dal prestito pensionistico. È una proposta che può funzionare?

Può funzionare nella misura in cui non va a pesare sui conti pubblici, cioè non aggrava il costo per l’Inps, e facilita l’entrata dei giovani nel mondo del lavoro. Il prestito pensionistico va inquadrato all’interno di una più ampia discussione e riforma del mercato del lavoro.



Per quale motivo collega prestito pensionistico e riforma del mercato del lavoro?

Mandare in pensione anticipatamente persone di 62 o 63 anni rappresenterebbe anche la possibilità di un turn-over, aumentando l’occupazione da parte dei giovani. Le imprese non assumono giovani per diversi motivi, che sono collegati sia al quadro macro-economico sia a rigidità che esistono tuttora nel mercato del lavoro italiano. Quest’ultimo è un mercato duale in cui chi è dentro ha grandi misure protettive, mentre chi è fuori non riesce a entrare e ha poche tutele.

Un anticipo di 6-700 euro permetterebbe ai pensionati di sopravvivere?



Seicento euro sono veramente poca cosa, anche se permetterebbe di vivere dignitosamente quantomeno a chi è proprietario di abitazione e quindi non paga l’affitto. Non so quante persone accetterebbero effettivamente questa misura che è su base volontaria. Sottolineo però l’importanza del fatto che non ci siano aggravi sull’ente previdenziale.

Insomma, niente regali…

L’Inps non può fare regali a nessuno, perché in questi anni ne ha fatti fin troppi. Queste misure non devono assolutamente gravare ulteriormente sull’ente previdenziale. È un principio che deve essere assolutamente mantenuto, perché negli anni passati abbiamo avuto molti esempi di misure che hanno aggravato inutilmente i conti pubblici, come i vari tesoretti spesi a vantaggio dei pensionati.

 

Perché è così importante questa sottolineatura?

L’Italia ha già un costo per pensioni superiore alla media europea, oltre il 15% del Pil, e la spesa pensionistica supera il 66% della spesa sociale. Anche la Germania, che ha anticipato l’entrata in pensione dai 67 ai 62-63 anni si sta accorgendo che il Welfare State dei Paesi occidentali non può essere pensato come lo abbiamo immaginato finora, ma occorre una flessibilità che ancora non abbiamo.

 

In che modo ritiene che vada realizzata questa flessibilità?

La riforma Dini del 1996 prevedeva la libertà di pensionamento tra i 57 e i 65 anni. In un sistema equo, cioè che non dà né premi né penalizzazioni, è un principio da salvaguardare. La forchetta va ovviamente spostata tra i 62/63 anni fino ai 70. Per chi volesse accettare questa libertà di pensionamento si dovrebbe adottare il principio contributivo, cioè il fatto che la pensione sia direttamente proporzionale a quanto si è versato e inversamente proporzionale all’età di pensionamento. È giusto quindi applicare le penalizzazioni di cui parla il ministro Poletti.

 

(Pietro Vernizzi)