Le recenti vicende in campo politico, economico e sociale, inducono inesorabilmente a porsi una domanda: che futuro ha il sindacato? Anche le organizzazioni dei lavoratori si trovano a un bivio. È il momento improcrastinabile di accettare la sfida della realtà, perché siamo di fronte a un Paese al collasso che ha bisogno di certezze e assunzioni di responsabilità non ideologiche; perché la ricchezza è possibile ridistribuirla nel momento in cui viene generata e per generarla occorrono investimenti, reciproci affidamenti, dove la sfida non è più solo tra capitale e lavoro, ma la concorrenza tra imprese (e lavoratori) italiane e quelle vietnamiti, sudcoreane o dell’Europa dell’est.



Il sindacato, un sindacato moderno, deve cogliere la sfida di un’economia globalizzata e maturare l’intelligenza necessaria per generare nuove forme di tutela a fronte di una realtà in continuo cambiamento e definizione: non è più possibile pensare di tenere posti di lavoro improduttivi o legati ad aziende che generano perdite per decine di milioni di euro al mese (vedi Alitalia), occorre invece cogliere le opportunità di investimenti pubblici e privati per intraprendere percorsi strategici per il Paese e assumersi il dovere di generare percorsi di ricollocazione per il personale in esubero.



Esiste però ancora una parte di sindacato (all’interno del pluralismo italiano) che non vuole accettare questa sfida, pensando di arroccarsi su diritti che giorno dopo giorno divengono inesigibili: come si può pensare che le tutele fino a oggi esistenti siano appropriate per aziende che chiudono in rapida successione? E cosa dire delle assunzioni, dove la stragrande maggioranza avviene attraverso forme differenti dal contratto a tempo indeterminato? Questi aspetti minano la certezza di un lavoro garantito e continuativo, anche se in Italia continua a esistere il famigerato articolo 18, divenuto oramai solo un baluardo ideologico di una sinistra antistorica o l’alibi di un’imprenditoria miope e immobilizzata.



Il punto non consiste, come sostengono certi imprenditori, nello smantellare ogni forma di tutela in nome di una distorta flessibilità, ma nel generare garanzie contrattuali che favoriscano gli investimenti, l’occupazione e la distribuzione della ricchezza. A differenza delle istituzioni politiche, le parti sociali hanno avuto la forza di regolamentarsi, attraverso la definizione di un testo unico sulla rappresentanza. Questo deve declinarsi al più presto nella determinazione di un assetto contrattuale certo: chi firma un contratto (perché questo è il compito principale del sindacato) nei suoi vari livelli, da quello nazionale a quello aziendale, deve avere la certezza di essere un soggetto rappresentativo, ma soprattutto che gli elementi negoziati siano realmente esigibili e quindi certi.

È il momento di una nuova stagione per la contrattazione, orientata verso l’introduzione di nuove forme di tutela per i lavoratori, più corrispondenti all’attuale realtà economica e sociale, ma allo stesso tempo fornendo maggiori certezze per le imprese, condizione essenziale per generare investimenti e quindi opportunità occupazionali.

Il sindacalismo italiano ha dimostrato nel corso della storia di sapersi assumere le proprie responsabilità nei momenti cruciali per il nostro Paese: penso all’accordo di San Valentino o alla concertazione degli anni Novanta che salvò l’Italia dal baratro. Oggi, più di ieri, il ruolo del sindacato, di un sindacato moderno, deve giocarsi nel territorio attraverso la contrattazione, avendo il coraggio di cambiare e di rimettere in discussione quanto ha costruito in più di sessant’anni di rappresentanza. Solo così potrà essere adeguato alle sfide del quotidiano, solo così potrà continuare ad avere un ruolo determinante per le sorti del nostro Paese. Solo così potrà avere un futuro e continuare a tutelare i milioni di italiani (e non di marziani) che ancora oggi decidono di aderirvi.

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