Con la ripresa dell’attività governativa e in vista delle scadenze europee, è tornato al centro del dibattito il tema delle riforme necessarie per sbloccare il sistema produttivo italiano.

Il presidente del Consiglio ha ribadito l’impegno, in un orizzonte triennale, di voler mettere mano a tutti i lacci e lacciuoli, a tutti i freni burocratici e corporativi che frenano i fattori produttivi.



Finché non vi saranno certezze sulla possibilità di sforare i parametri europei non sarà possibile contare su manovre più onerose per le finanze pubbliche, ed anche dopo si potranno usare risorse per investimenti ma non continuare in spese improduttive.

Date le premesse non resta più molto spazio per rinviare quelle riforme che si ritengono indispensabili per sbloccare un paese che appare sempre più come un pugile suonato incapace di rimettersi in moto. Anche i principali attori sociali appaiono costantemente fuori contesto. Pur proponendo continue richieste al governo, sembrano legati ad una realtà superata, incapaci di proporsi come agenti di sviluppo. Sono solo a richiedere ad altri interventi che non tocchino il loro sistema di potere consolidato. Per riprendere un vecchio detto, non essendo capaci di proporre soluzioni sono essi stessi parte del problema. In questo ruolo i rappresentanti delle parti sociali risultano sempre in fuori gioco: non avanzano proposte di rinnovazione contrattuale che pompano al centro la produttività ed il lavoro, se si tratta di servizi dimenticano costantemente che l’obiettivo è il miglioramento del servizio o la soddisfazione dei cittadini/utenti per favorire accordi corporativi di settore, frenano ogni innovazione nel mercato del lavoro se ciò intacca il loro potere di voto e non accettano responsabilità operative.



E’ a partire da questa realtà che il tema della riforma del mercato del lavoro assume una valenza che va oltre i semplici contenuti dei provvedimenti (Jobs Act) per diventare sia a livello nazionale che per l’impatto europeo il segnale di una svolta reale.

Visto nei suoi principi generali si tratta di porre la persona la centro delle decisioni, i contributi vanno destinati a sostenere chi si mette in moto, vanno premiati i risultati ottenuti.

Mettere la persona al centro significa procedere ad una riscrittura e semplificazione della legislazione del lavoro che valorizzi il contributo lavorativo delle persone e che semplifichi il sistema di tutele dei diritti e delle tutele economiche.



L’impresa non può più essere vista come sede di conflitti permanenti e le regole non possono più essere quelle che regolavano tali conflitti. Va valorizzato il ruolo del lavoro sia nella partecipazione alle decisioni dell’impresa che per il contributo alla produttività. D’altro canto il mercato ha accelerato anche la vita delle imprese e da un lavoro a vita si è passati ad una vita di lavori. 

Per questo oltre ai diritti fondamentali di non discriminazione, abbiamo bisogno di un sistema di tutele che hanno al centro il sostegno delle persone sul lavoro e nel passaggio da lavoro a lavoro. Le competenze acquisite valgono più dei vecchi mansionari che oggi ingessano l’organizzazione del lavoro e anche la mobilità del lavoro.

Vi sono poi i contributi necessari per i periodi di difficoltà. Anche in questo caso vanno posti in capo alla persona perché finanzino percorsi di ricollocazione lavorativa. Il sostegno al reddito è certo indispensabile, ma in cambio devono essere previsti servizi che aiutino a ritrovare un lavoro. Non possono più esserci sostegni al reddito senza un reciproco impegno a mettere le proprie competenze a disposizione di iniziative per la ricollocazione attraverso con la formazione di nuove competenze personali attraverso lavori formativi o percorsi di formazione professionali. Se vogliamo rimettere in moto il lavoro la difesa del posto che non ha più mercato è un lusso che danneggia tutti sia educativamente che economicamente.

A svolgere il ruolo di sostegno e accompagnamento al lavoro di chi ha più bisogno deve essere una rete di servizi di buona professionalità. Dato che il nostro sistema di servizi al lavoro pubblici è lo sviluppo dei vecchi uffici di collocamento, esso ha una struttura più simile all’anagrafe che non quella di operatori capaci di fare matching fra domanda e offerta di lavoro. Per questo è indispensabile che la rete dei servizi coinvolga le agenzie per il lavoro e che per un periodo i due sistemi crescano assieme e svolgono in collaborazione tutte le fasi dalla presa in carico delle persone fino al reinserimento lavorativo. Le risorse dovranno essere assegnate alle persone che potranno così scegliere a chi rivolgersi e ottenere i servizi previsti in un piano di reinserimento lavorativo personalizzato. Le agenzie coinvolte saranno poi pagate a costi standard per i servizi pubblici prestati e a risultato per i reinserimenti lavorativi operati.

Mettere in moto una riforma così impostata avrebbe il grande pregio di dimostrare che anche il più ingessato mercato del lavoro europeo è riformabile. Sarebbe anche la base culturale per aprire una stagione di riforme che sanno scommettere sulla libertà delle persone e della responsabilità di tutti a contribuire al bene comune.

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