Caro direttore,
Mentre ancora una volta si discute di riforma del lavoro, prima l’Ocse e poi il Centro studi di Confindustria ci ricordano la triste realtà del nostro Paese: l’Italia resta in recessione; forse, l’anno prossimo, avremo una leggera crescita. Proprio in merito alla situazione difficile della nostra economia, di recente il Forum Ambrosetti ha consegnato alle cronache un decalogo delle misure che la voce delle professioni vorrebbe vedere attuate per la ripartenza. Si tratta di priorità quali la riduzione del carico fiscale, il taglio della spesa pubblica, lo sviluppo delle infrastrutture, le liberalizzazioni, la riforma della giustizia civile, l’innovazione, ecc. Sono punti entrati nel dibattito ormai da tempo, a Cernobbio hanno lasciato fuori la semplificazione della Pa e il costo dell’energia (in Italia è del 30% superiore alla media europea), ma per il resto c’è tutto.
Ma non è del Forum Ambrosetti che voglio parlare, bensì di questo dibattito, che è il medesimo che trova spazio anche su queste pagine. Per questo sono a scriverti, e non certo per dirti che non sono d’accordo con quelle che ormai tutti abbiamo individuato come delle priorità, al di là di come poi possono essere attuate; anzi, concordo molto sulla precedenza assoluta assegnata al problema fiscale.
Ma da tempo, nel mio lavoro di analista del mercato, cioè di chi interloquisce e ascolta i suoi attori che sono impresa e lavoro e, anche, le loro rappresentanze e gli intermediari privati, penso che si parli poco di mercato. Il mercato, in fondo, è la nostra materia prima per la crescita. E proprio di questo vorrei parlare. Vorrei mettere l’accento sul fatto che tutto il dibattito sulla competitività del nostro sistema, e quindi delle nostre imprese, dà per assunto che queste siano pronte e attrezzate per la competizione. Cioè, parliamo e invochiamo condizioni migliori per la competitività e per la competizione delle nostre imprese, ma assumiamo come dato che, una volta realizzate queste condizioni, la nostra economia torni a crescere.
Non vi sono dubbi sul fatto che questi interventi siano indispensabili, ma se guardiamo alla realtà del nostro mercato ci accorgiamo che certi usi e costumi piuttosto tipici ne hanno impedito di molto l’innovazione. L’ultimo dato di Unioncamere parla dell’85% dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro generato dal canale informale (ossia dalla rete delle conoscenze). Parlo del familismo che contraddistingue la nostra economia, parlo delle “raccomandazioni”, temine addirittura adottato da The Economist quando parla dell’economia italiana. Ma c’è di più: la corruzione, ovvero l’espressione più patologica del familismo, è in Italia oltre ogni livello di sostenibilità; la Commissione Europea, che ne monitora il livello nei singoli stati membri, ha calcolato che il livello di corruzione in Italia equivale alla somma dei singoli livelli degli altri 27 paesi.
Nel frattempo, le più importanti realtà produttive italiane dicono di essere a caccia di talenti; è chiaro che l’innovazione passa dal capitale umano, non servono tuttavia i numeri per ricordare quanto i giovani, i più importanti portatori di innovazione, nel nostro mercato del lavoro si ritrovano ai margini. E non è una novità che la maggior parte dei nostri talenti scelga la pista estera, desiderosi di trovare non solamente un lavoro ma anche condizioni di lavoro che l’Italia fatica ad offrire: parlare di “merito” è scontato, ma è chiaro che a oggi il mercato italiano non ha premiato il talento, ha favorito gli “amici”, ha privilegiato e tutelato l’anzianità; non ha – come ci ricorda il dato di Unioncamere – premiato le competenze ma la rete delle conoscenze. È anche vero che l’esperienza (e quindi l’anzianità) e il patrimonio relazionale non sono sempre un male, anzi… ma sappiamo tutti che avremmo bisogno di allentare la dinamica delle relazioni.
Qualcuno ha di recente ricordato che “troppe imprese sono ferme ai vecchi modi di produrre”. Di questo parliamo poco; mi limito a esprimerti qualche dubbio sulla reale capacità della nostra materia prima (le imprese, che certamente vivono del loro capitale umano) perché da diversi luoghi associativi datoriali sono a conoscenza di fenomeni che questo dubbio quantomeno lo giustificano. Alludo al fatto che diversi operatori finanziari (di fondi privati, piuttosto che degli stessi istituti di credito) si rivolgono ai vertici delle realtà associative con la speranza di individuare imprese su cui investire. Il lavoro di una banca piuttosto che quello di un fondo privato è quello di vendere denaro, di investire… ci siamo? Naturalmente è importante per chi investe fare le giuste scelte, individuare i giusti progetti… insomma, questo meccanismo non è che sia così funzionante: sembra tutt’altro che ordinario individuare aziende e progetti promettenti e affidabili.
Sono convinto, e credo di non essere il solo, che il nostro Paese offra risorse importanti: con l’esplosione della crisi economica ci siamo accorti tutti che c’è un’Italia che lavora duro e che ce n’è una parte considerevole che vive di rendita. Nella parte sana ci sono imprenditori straordinari che non solo hanno creato lavoro e grandi prodotti, esportando il made in Italy e il genio italiano in tutto il mondo, ma hanno anche retto un carico fiscale smisurato oggi non più sostenibile. Sono stati spremuti oltre ogni limite. Questo ci dice quali grandi capacità questo Paese ha espresso; nonostante una classe dirigente che ha saccheggiato quanto più ha potuto, questo Paese 10 anni fa era la quinta economia del mondo e oggi rimane pur sempre tra le primi otto. Certo, in questi ultimi 10 anni abbiamo bruciato 10 punti di Pil. Ma la crisi economica, esplosa nel 2008, ha soltanto acuito il nostro declino, iniziato con la mancanza di risposte che l’intero Paese non ha saputo dare ai cambiamenti strutturali della nuova economia globale. Questo fenomeno ha un nome: si chiama gap di innovazione.
Non è sufficiente fare le riforme, questo Paese deve innanzitutto ritrovare coesione e volontà di ripartire. Ma soprattutto deve ritrovare fiducia: il semplice fatto che ognuno parli solo degli altri indica che la diffidenza regna sovrana e che il sistema è in confusione. Del resto, imprenditori che non trovano le giuste risorse e quelle migliori che vanno all’estero non ci dice forse che il sistema comunica male?
Luigi Einaudi diceva che “la soluzione di un problema economico non è di natura economica”: continuiamo a dibattere di ricette per l’economia, ma ciò che serve al nostro Paese per ripartire è una nuova coscienza e un nuovo patto sociale, un patto che crei condizioni per cui ognuno torni a fare bene il proprio lavoro, col desiderio di fare bene la propria parte. Questa è l’unica strada per essere competitivi. È una strada in salita, ma non è più tempo di tentare rovinose scorciatoie. Ma soprattutto è ora di insegnare ai più giovani che le scorciatoie, nel lavoro come nella vita, non esistono.
In collaborazione con www.think-in.it