Analizzando le dinamiche di lungo periodo (1996-2011), si osserva che in Italia sia il numero di imprese che di addetti sono aumentati globalmente del 15%, con un incremento medio pari a poco meno dell’1% annuo: gli addetti sono aumentati di più di 2,2 milioni, mentre le imprese di 580 mila unità (elaborazione dati, fonte Asia-Istat). La dinamica è tuttavia scomponibile in tre periodi che mostrano in particolare un deciso incremento (specialmente in termini di addetti) tra il 2000 e il 2006 e una forte flessione nell’ultimo quinquennio in cui gli addetti sono calati di 700 mila unità (-4%) e le imprese di quasi 30 mila unità.
È evidente il contraccolpo della grande crisi sul mercato del lavoro, confermato anche dall’analisi dei dati di bilancio delle imprese italiane che mostrano un vero e proprio crollo degli indicatori di redditività ed efficienza. La percentuale di imprese che mostra profitti positivi crolla da circa il 70% negli anni precedenti il 2008 a poco più del 50% negli anni successivi (elaborazione dati fonte Aida).
Questo contesto, che complessivamente ha portato al raggiungimento di un tasso di disoccupazione che si attesta nell’intorno del 12%, tende a penalizzare le categorie più deboli e vulnerabili del mercato del lavoro. I giovani sono particolarmente colpiti; la quota della popolazione giovanile che non lavora né studia (Neet) ha raggiunto in Italia il 25%. È interessante ricordare anche la struttura del nostro sistema produttivo composta da microimprese (con meno di 10 addetti), che rappresentano il 95,2% delle imprese attive (più della metà sono imprese individuali senza alcun dipendente) e il 46,3% degli addetti. Da ultimo, e per ragioni di sintesi, sempre rispetto all’evoluzione dell’ultimo quinquennio, in termini di addetti, emerge un vistoso calo, in termini assoluti e percentuali, specialmente per la piccola e media impresa e tra i settori economici, nel settore industriale.
È una situazione che non lascia scampo. È necessario, da una parte, che le istituzioni riordinino un sistema legislativo costruito su norme e regole pensate per un contesto economico e sociale totalmente diverso da quello in cui viviamo e, dall’altra, che le persone accettino la sfida del cambiamento in atto. Il Jobs Act proposto dal Governo traccia alcune linee di riforma che delineano alcuni punti di possibile cambiamento. La proposta si muove nella direzione di semplificazione delle regole, di integrazione tra politiche attive e passive, di introduzione di tutele crescenti per i contratti a tempo indeterminato (modifica del famoso articolo 18), di revisione delle forme contrattuali, di ampliamento e armonizzazione di un sistema di servizi per il lavoro.
La traiettoria delineata tocca certamente alcune grandi criticità oggi presenti e se ben articolate e attuate potrebbero dare positive risposte a un mercato del lavoro in forte crisi. Certo, occorrerà vedere come le stesse si attueranno nello specifico attraverso decreti attuativi e, soprattutto, come si investirà nella creazione di politiche di sviluppo del nostro sistema produttivo e in materia fiscale.
Come si creano occasioni e opportunità lavorative? Come si può ridare forza ai consumi? Le regole del mercato del lavoro sono importanti, ma non si può dimenticare che occorrerà intervenire sul costo del lavoro (o più in generale sul sistema fiscale) e sulla valorizzazione e sviluppo del nostro sistema produttivo. Tenere insieme questi fattori e affrontarli unitariamente apre una questione fondamentale: l’immagine che si ha di lavoro, di economia e più in generale di società.
O si percorre questa strada – e conseguentemente si cercherà di dare risposte ai bisogni delle persone e delle imprese – o ci si soffermerà ideologicamente a discutere dell’articolo 18 e il nostro Paese rimarrà fermo al palo dei pregiudizi dei vari “gruppi di interesse”.