Il premier Matteo Renzi, sia durante le primarie che successivamente, ha spesso fatto riferimento alla cosiddetta “Generazione Erasmus” come simbolo di quell’Italia – e di quell’Europa – nuova che non trova rappresentanza nel nostro sistema politico ritenuto, molte volte a ragione, incapace di dare risposte innovative ed efficaci a problemi e questioni mai affrontate in passato e di cui, spesso, questi ragazzi sono portatori sani. Per avere, tuttavia, un quadro più chiaro di questo fenomeno risulta molto utile leggere il recente studio dell’Unione europea, pubblicato nei giorni scorsi, che indaga, appunto, questa realtà e i suoi impatti complessivi.
Prima di tutto è opportuno segnalare come oltre il 90% degli studenti che hanno partecipato a questo percorso in mobilità desiderava maturare un’esperienza all’estero per sviluppare abilità quali la capacità di adattamento e migliorare le competenze linguistiche. Ben l’85%, inoltre, cullava il desiderio, grazie all’Erasmus, di migliorare le proprie prospettive professionali all’estero. Si pensi, in quest’ottica, come la quota dei datori di lavoro che hanno ritenuto l’esperienza maturata all’estero un elemento importante per le prospettive professionali è quasi raddoppiata tra il 2006 e il 2013, passando dal 37% al 64%.
Più del 90% degli studenti segnala, infatti, a seguito di questa esperienza, un generale miglioramento delle proprie competenze trasversali, quali la conoscenza di altri paesi, la capacità di interagire e di collaborare con persone provenienti da culture diverse, l’adattabilità, la padronanza della lingua straniera e le capacità di comunicazione: tutte skills che rappresentano oggi, se possedute e gestite in maniera intelligente, un elemento estremamente qualificante nel nostro mercato del lavoro sempre più veloce e globale.
Più di un terzo degli studenti che hanno svolto un tirocinio Erasmus ha ricevuto, inoltre, un’offerta di lavoro da parte dell’impresa ospitante, quasi un tirocinante Erasmus su dieci ha avviato una sua azienda e oltre tre su quattro pianificano o non escludono di farlo. La mobilità si ripercuote, quindi, anche sui tassi di occupazione (giovanile). L’incidenza, infatti, della disoccupazione di lunga durata per gli ex studenti Erasmus è dimezzata rispetto a chi non ha mai vissuto all’estero. Anche a cinque anni dalla laurea, il tasso di disoccupazione tra gli studenti in mobilità è, secondo il recente studio europeo, inferiore del 23% rispetto agli studenti che non avevano partecipato a un programma di mobilità.
Ben il 64% dei datori di lavoro coinvolti nella ricerca ha sottolineato, inoltre, come i laureati con una preparazione internazionale si vedono attribuire più spesso una maggiore responsabilità professionale. Dieci anni dopo la laurea, infatti, ben il 77% degli ex studenti Erasmus intervistati occupa posizioni di leadership, e la probabilità di occupare posizioni manageriali è superiore del 44% rispetto a quei colleghi che non hanno partecipato a tale programma.
La mobilità da studenti promuove, inoltre, la mobilità lavorativa. Si pensi che il 40% degli ex studenti Erasmus ha cambiato Paese almeno una volta dopo la laurea rispetto al 23% dei giovani che non hanno fatto tale esperienze e, in ogni caso, il 93% dei primi non esclude a priori di andare a vivere all’estero in futuro.
Il rapporto, però, ci parla, tuttavia anche (giustamente) del “doposcuola”, segnalandoci come il 33% degli ex studenti Erasmus ha un partner stabile di nazionalità diversa dalla propria (una percentuale di quasi tre volte superiore rispetto al resto del campione), e il 27% di questi lo ha incontrato proprio durante il soggiorno all’estero.
Tutto ciò premesso viene, quindi, da chiedersi se, e quanto, questi ragazzi e ragazze possano essere realmente interessati al vecchio, e ormai superato dalla storia e dai fatti, dibattito novecentesco sull’articolo 18, probabilmente poco comprensibile al di là delle Alpi. La crescita di un Paese, e la sua capacità, quindi, di creare lavoro, sembra, infatti, dirci la “Generazione Erasmus”, si fonda non tanto su regolamentazioni giuridiche (per quanto importanti), ma sulla capacità di una comunità nazionale di leggere con speranza e fiducia il futuro e questo mondo globale con tutte le sue opportunità.
Riuscirà, quindi, al di fuori di una facile retorica, il giovane Matteo a mettere questi sogni e aspirazioni di una generazione in un programma di governo da realizzare passo dopo passo o avrà, anche lui, bisogno di fare un “periodo Erasmus” a Berlino?
In collaborazione con www.amicimarcobiagi.com