Il blocco dei contratti pubblici fino al 2015 è una misura spiacevole ma giusta. Spiacevole soprattutto se si pensa ad alcuni segmenti del settore pubblico come quelli riguardanti la sicurezza e la salute dei cittadini. Non si può però non notare come le dinamiche salariali sono ferme o in decrescita anche nel settore privato e come il settore pubblico non abbia brillato per un evoluzione positiva negli ultimi anni.
In un momento in cui il rapporto deficit/Pil si è impennato soprattutto per la flessione del secondo termine, in cui in Spagna si sono tagliate le tredicesime e in Grecia si è fatto anche peggio, non poter concedere aumenti salariali è un segnale di realtà.
Verrebbe quasi da chiedersi dov’è la notizia e qual è la ragione di questo clamore, se non conoscessimo come una minoranza agguerrita riesca spesso a creare agitazione con la complicità più o meno esplicita dei mass media.
A differenza di quanto si pensa, il problema nel settore pubblico non è la scarsità delle risorse, visto che si sono visti incentivi “a pioggia”, ticket anche a 14 euro in Regione Lombardia o facilmente stipendi sopra i 200mila euro, semmai si tratta di discutere della distribuzione di queste risorse.
Un altro problema è rappresentato dal sistema di regole e dal modo in cui vengono o meno applicate. Nei meandri del diritto amministrativo e nella capacità di applicarlo o violarlo a proprio piacimento stanno molte delle difficoltà per rendere il settore pubblico un buon posto dove lavorare. Un sistema in cui per cambiare una procedura banale bisogna aspettare un decreto legge/decreto attuativo/pronunciamento di tar, consiglio di stato e tanto tempo.
Come fare per scardinare questi due problemi? Nel primo caso ci si scontra contro la foresta pietrificata dei diritti acquisiti, nel secondo si tratta di creare una cultura e un incentivo alla semplificazione. Due problemi enormi, diffusi anche nel settore privato (almeno nelle grandi aziende). Due problemi che rimandano ad un fortissimo cambiamento culturale per cui forse occorrerà saltare una generazione per vedere una soluzione.
Non stupisce nemmeno l’alzata di scudi dei sindacati e di parte della politica che, salvo lodevoli eccezioni, non riescono a staccarsi da un modello di lotta al datore di lavoro che aveva senso negli anni 60, ma che nella competizione globale porta solo a un continuo arretramento del benessere collettivo e della qualità del lavoro.
Un sindacato e una politica moderni avrebbero invece un compito a mio avviso abbastanza diverso. Dovrebbero controllare e fare pressione perché si verifichi la bontà delle nomine, perché si aumenti la qualità del lavoro, perché si faccia innovazione cambiando norme arcaiche e inique, perché si semplifichi, perché si eliminino gli sprechi, perché si puniscano gli illeciti e perché venga data responsabilità ai buoni dirigenti pubblici che ci sono.
Questo poco ha a che fare con l’aumento degli stipendi, ma molto di più con il rispetto di chi lavora nel pubblico, con la capacità di risolvere problemi reali del cittadino, con la passione di essere utili alla comunità.
Preoccupa invece l’annuncio del Governo di centinaia di migliaia di assunzioni nella scuola che, abbinate al blocco degli stipendi, rischiano di attirare solo capitale umano poco qualificato. Allo stesso modo preoccupano i blocchi dei contratti pubblici che, abbinati al blocco del turnover, rischiano di rendere chi lavora nel settore pubblico ancora meno motivato. Il pubblico ha bisogno di persone di qualità, degnamente retribuite. Perché questo succeda servirà molto impegno da parte di tutti. Trovare nemici immaginari o bloccare il lavoro servirà solo ad allontanare il traguardo.