Le camere hanno ricominciato l’analisi del Jobs Act. Dopo una estate caratterizzata dalle polemiche, invero ormai datate, sull’articolo 18, l’attenzione si concentra ora sui lavori delle commissioni che dovranno presentare un testo da approvare entro la fine del 2014. Una riforma fortemente voluta da molti, in primis da Mario Draghi, e ritenuta fondamentale dall’ultimo rapporto Ocse sull’occupazione in Italia.
Le tesi sulle quali vige il disaccordo sono note: da un lato chi vuole introdurre un contratto a tutele crescenti per i primi tre anni dall’assunzione, per poi ripristinare le tutele previste dall’art. 18. Dall’altro chi vuole che queste tutele non vengano reintrodotte. In questo secondo caso non verrebbe previsto il reintegro del lavoratore licenziato ma un indennizzo, non ancora quantificato. Resta sullo sfondo una moderna riforma dei servizi al lavoro e degli ammortizzatori sociali, imprescindibile per sostenere la maggiore fluidità e flessibilità del mercato del lavoro spostando così il baricentro delle tutele dal “posto” di lavoro al mercato del lavoro.
Per valutare la credibilità e praticabilità delle diverse proposte in campo c’è invero un dato che ancora pochi stanno tenendo in considerazione, che getta un’ombra scura sulle future riforme del mercato del lavoro. Il dato è quello diffuso dal Monitoraggio del ministero del Lavoro sull’andamento del piano Garanzia giovani. A quattro mesi dall’avvio del piano (il 1° maggio) gli iscritti sono solo 180.000 e tra questi solo 26.000 hanno sostenuto un colloquio. A ciò si aggiunge che, complice il fatto che la maggior parte delle regioni non ha ancora pubblicato i bandi di attuazione dei piani regionali, i posti di lavoro finora offerti sono solo 15.000.
Esiste un legame tra il Jobs Act in discussione e la Garanzia giovani? Ci sono diversi aspetti che procedono in parallelo, in particolare riguardo al modello delle politiche attive del lavoro. Infatti uno dei principali motivi di scarso funzionamento della Garanzia giovani è la mancanza di un sistema di accreditamento dei servizi privati per l’impiego nella maggior parte delle regioni italiane. Il testo originale del Jobs Act proponeva una Agenzia unica nazionale per la gestione delle politiche attive come già esiste in quella delle politiche passive con l’Inps.
Ma il vero legame è un giudizio politico sull’andamento delle politiche del lavoro nel nostro paese. Ossia, visto il fallimento verso il quale si sta dirigendo il piano per i giovani è spontaneo chiedersi, e sicuramente lo faranno gli investitori internazionali, come faremo a realizzare veramente quanto previsto dal Jobs Act?
Garanzia giovani era un test per il governo. Un test finanziato con un miliardo e 500 milioni di euro dall’Unione europea, avente come “cavie” le migliaia di giovani iscritti. Al momento il test non è stato superato, e le “cavie” sono ancora in attesa. Il numero sempre minore di iscritti al piano mostra inoltre che questa attesa si sta velocemente mutando in sfiducia.
È difficile pensare che se il fallimento è avvenuto in presenza di risorse e del sostanziale accordo tra sindacati, associazioni datoriali e governo, il Jobs Act possa portare a risultati concreti. In questo caso ci troviamo infatti in una situazione che vede spaccati i sindacati e la stessa maggioranza, anche all’interno del Pd.
Possiamo interpretare come un dato positivo il fatto che Garanzia giovani abbia fatto venire a galla problematiche che il Jobs Act vuole risolvere. Ma allora ci si chiede: perché rimandare la decisione sull’Agenzia Unica (già presente nelle linee guida presentate da Renzi l’8 gennaio) alla legge delega? Forse avrebbe potuto essere un segnale verso un sistema di politiche attive differenti, e in linea con l’impianto di Garanzia giovani previsto dalla Raccomandazione europea.
Non resta che aspettare un veloce cambio di rotta da parte delle regioni nel presentare i piani di attuazione, per evitare di perdere questi ultimi mesi e, soprattutto, queste risorse.