Il 2014 si aprì con il programma in materia di riforma del lavoro pubblicato il 9 gennaio dall’allora segretario del Pd Matteo Renzi. Sei propositi un poco confusi e ideologicamente contraddittori, ma certamente rilevanti: semplificazione e nuovo codice del lavoro, contratto a tutele crescenti, assegno universale per i disoccupati, rigidi controlli sulla formazione professionale, Agenzia unica federale delle politiche attive e passive, legge sulla rappresentatività sindacale. Questa la prima versione di quello che già allora era chiamato Jobs Act, con esplicita sintonia terminologica con il piano per l’occupazione obamiano.
Invero il primo atto sul lavoro del nuovo Governo Renzi (il dl 34 di marzo, poi convertito a maggio in legge 78) non ha inteso realizzare nessuna di queste proposte, bensì è stato un pacchetto di misure urgenti destinate, molto pragmaticamente, a ottenere qualche primo risultato positivo utile a riattivare la ripresa, avere più voti nelle elezioni europee, preparare il campo alla riforma vera e propria rimandata all’estate. Purtroppo i dati dei mesi successivi non hanno registrato alcun miglioramento dovuto alla liberalizzazione del contratto a termine e alle timide semplificazioni in materia di apprendistato (i due contenuti principali del dl 34).
Il costante incremento della disoccupazione italiana, tanto quella degli adulti che quella dei giovani e in particolare, per entrambe le categorie, quella di lunga durata, ha inevitabilmente “scaricato” sulla riforma del lavoro in cantiere speranze e attese che il Governo non solo ha deciso di non raffreddare, ma anche di fomentare anticipando contenuti roboanti e (quindi) divisivi. Il superamento dell’articolo 18 è stato il simbolo scelto dal Premier per confermare internamente e in Europa la dimensione riformista del suo Governo.
È di settembre 2014 la prima versione del disegno di legge delega «in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro», che il Senato ha approvato l’8 ottobre 2014 con diverse modificazioni rispetto alla proposta originale del Governo. In questo testo hanno trovato spazio quattro dei sei propositi twittati da Renzi a gennaio: semplificazione e nuovo codice del lavoro, contratto a tutele crescenti, assegno universale per i disoccupati, Agenzia unica federale delle politiche attive e passive (diventate Agenzia nazionale per l’occupazione, senza le competenze sulle politiche passive immaginate in precedenza).
Il dibattito si è concentrato esclusivamente sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio come escamotage per aggirare l’articolo 18 per i soli nuovi assunti, pur senza toccare il testo del 1970. L’esito dell’aspro scontro mediatico, politico e sindacale è stato tecnicamente tradotto in norma nelle modifiche che la Camera ha apportato al disegno di legge delega a fine novembre: riduzione degli spazi di delega in materia di licenziamento, demansionamento, controlli a distanza e nuova previsione di abrogazione delle più precarie forme contrattuali. È questa la versione della legge delega approvata con fiducia anche al Senato e diventata la legge dicembre 2014, n. 183, bisognosa dei decreti attuativi per diventare realmente incidente.
I primi due decreti attuativi, relativi al contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e alla nuova Aspi, sono stati approvati dal Consiglio dei Ministri il 24 dicembre ed entro un mese (durante il quale potranno essere modificati) entreranno in vigore. Tanto si è scritto sui possibili contenuti di questi decreti prima della loro approvazione e, ancora una volta, fortissime sono state le tensioni e le opposizioni (si pensi, su tutti, allo sciopero generale di Cgil e Uil del 12 dicembre).
La versione definitiva e ufficiale dei decreti segna (per ora) una vittoria politica degli oppositori del disegno riformistico originale di Renzi: non c’è certamente alcun superamento reale dell’articolo 18, né possibileopting out del datore di lavoro (scelta unilaterale di pagamento di un’indennità maggiorata in luogo del reintegro stabilito dal giudice), né sostegno alla contrattazione anche in deroga in sede aziendale, né alcun collegamento con interventi su scuola e università.
Insomma, il percorso del capitolo principale del Jobs Act è stato “in discesa”: non tanto per quanto concerne la durezza dello scontro (anzi), quanto a riguardo della forza di cambiamento dei contenuti, decisamente più annacquati rispetto a quanto era stato premesso e promesso.
È iniziato il 2015: cosa aspettarci? Il mercato del lavoro italiano in questo anno non ha vissuto alcun “cambio di verso”. E quindi c’è ancor più bisogno di prima di un’inversione di rotta. Quel che risulta più sgradevole nella lettura dei primi due decreti attuativi del Jobs Act non riguarda tanto le soluzioni tecniche approvate (a fianco di scelte deludenti vi sono anche luci, in primis la nuova conciliazione e il contratto a tutele crescenti), quanto il metodo adottato, ovvero la prevalenza del compromesso (tutto interno a uno stesso schieramento politico e culturale) sui contenuti e quindi della stabilità politica sull’efficacia delle riforme.
I capitoli della legge delega e dei decreti sono cambiati più volte senza una particolare coerenza, come se il disegno di fondo fosse il salvataggio di capra e cavoli e non il coraggio di perseguire decisioni coerenti con una visione di cosa serva al Paese per uscire dal pantano, indipendentemente dall’esattezza o meno del progetto.
La speranza è che il Governo, già a partire dai prossimi decreti delegati del Jobs Act (almeno tre, da approvarsi entro inizio giugno 2015), riacquisti il coraggio contenuto nei propositi di inizio mandato, poiché, come ha ricordato il Presidente Napolitano nel suo discorso, il mercato del lavoro italiano, in particolare quello giovanile, non può essere schiavo dei tatticismi politici.
@EMassagli