Come se non bastassero le discussioni e le polemiche succedutesi negli ultimi mesi intorno ai contenuti del Jobs Act, ecco aggiungersene una ulteriore relativa all’applicazione o meno del nuovo impianto di regole anche al settore del pubblico impiego. Il Ministro Madia (sostenuta anche dal collega Poletti) ha tenuto a sottolineare in più occasioni che il Governo non ha mai inteso estendere il Jobs Act alla Pubblica amministrazione e che nei confronti dei pubblici impiegati continuerà a essere applicata la tutela della reintegrazione in caso di licenziamento disciplinare illegittimo.



Tuttavia, con particolare riferimento alla questione dell’estensione nei confronti dei dipendenti pubblici della nuova tutela dei licenziamenti illegittimi prevista dal Jobs Act,la posizione assunta dall’Esecutivo non è né fondata, né condivisibile, posto che l’argomentazione maggiormente utilizzata – più suggestiva che giuridica – secondo cui la riforma del lavoro sarebbe stata pensata e scritta per dare più flessibilità all’impresa non potrebbe in nessun caso implicare che regole di diritto positivo (vedi il d.lgs. 165/2001) vengano modificate “implicitamente”.



In effetti, da queste esternazioni sembra che il Governo ignori del tutto la portata delle disposizioni contenute negli articoli 2, comma 2, e 51, comma 2, del d.lgs. 165/2001 (ultimo atto della cosiddetta “riforma Brunetta”) che estendono automaticamente al lavoro pubblico le regole non derogate del lavoro privato, ivi compreso lo Statuto dei lavoratori. E poiché non esistono norme speciali derogatorie sul licenziamento illegittimo, specificamente dedicate al lavoro pubblico, questo significa che allo stato l’unica disciplina esistente, tanto nel lavoro privato, quanto nel pubblico, è quella dell’articolo 18 della legge 300/1970 e sue successive modificazioni e integrazioni.



Ergo, se il Governo intenderà creare differenti regole per i licenziamenti nella Pa – non senza il rischio di violare l’art. 3 della Costituzione – non potrà farlo che legiferando appositamente, magari nell’ambito della riforma della Pubblica amministrazione. Né può valere l’ulteriore argomentazione utilizzata da alcuni rappresentanti del Governo per giustificare l’applicazione al lavoratore pubblico della tutela della reintegrazione in caso di licenziamento disciplinare illegittimo secondo la quale nel lavoro pubblico vi sarebbe la necessità di proteggere chi lavora da atteggiamenti discriminatori dovuti all’orientamento politico.

Deve esser sfuggito, infatti, a quegli stessi rappresentanti, che non è proprio necessario prevedere un regime speciale di tutela per garantire i dipendenti pubblici da licenziamenti discriminatori derivanti da intenti politici, dal momento che il decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014 n. 183, non ha affatto eliminato la reintegrazione come conseguenza dell’accertamento della natura discriminatoria del licenziamento, ovvero quando questo (sia nel privato che nel pubblico) sia determinato da ragioni politiche, religiose, razziali, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.

Nel frattempo i sindacati si dicono già pronti a scendere nuovamente in piazza contro il Jobs Act, strumento – dicono – di ulteriori fratture e diseguaglianze nel mondo del lavoro…

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