Il passo prevedibilmente decisivo dell’attuazione del Jobs Act, quello sulla riforma dei contratti di lavoro, arriverà in consiglio dei ministri con decreto attuativo entro fine febbraio. Lo ha confermato ieri mattina il ministro Poletti nell’ambito della presentazione dell’annuale Rapporto sul mercato del lavoro che la Fondazione Obiettivo Lavoro ha realizzato in collaborazione con il centro di ricerca CRISP della Bicocca e la Fondazione per la Sussidiarietà.



“Ci sono forme contrattuali che aboliremo – ha precisato il ministro alla sua prima uscita pubblica dopo l’approvazione dei primi decreti del Jobs Act la vigilia di Natale – altre che ristruttureremo profondamente, perché se aboliamo una forma contrattuale dobbiamo sapere dove andrà chi aveva quel tipo di contratto: non vogliamo riprodurre lavoro nero. E’ un lavoro molto delicato che faremo tutti assieme”. In ballo c’è, ad esempio, la soppressione dei co.co.pro, ma soprattutto c’è il bisogno di rassicurare sul fatto che le misure del Jobs Act, da una parte faciliteranno l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro, dall’altra offriranno adeguate tutele a chi ne è in uscita e a chi vedrà cambiare il suo contratto. “Vogliamo un mercato del lavoro più aperto e dinamico, ma non una riduzione dei salari che è un’idea lontana milioni di chilometri da quello che pensiamo. Vogliamo piuttosto ridurre la possibilità che qualcuno possa fare il furbo, trovare escamotage per un trattamento in peggio dei lavoratori”. “Quando mi accusano di volere la precarietà permanente io rispondo che la precarietà permanente c’è adesso, quando i giovani si beccano dieci anni di seguito la collaborazione coordinata e continuativa, senza sapere cosa gli succederà da lì a tre mesi. Far finta di non vedere questo è una responsabilità grave. Si tratta in definitiva di “passare dalla rendita all’opportunità, da una situazione di difesa dell’esistente all’impegno a cogliere opportunità”.



E’ proprio alla sfida culturale che il ministro sembra tenere di più. Il mondo sta cambiando e “cambia anche l’italiano. Dico: ‘vado a lavorare’, ma è il lavoro che adesso viene da noi”, con email, sms e quant’altro che ad ogni ora del giorno ci raggiungono. Inoltre, la vita per come l’abbiamo vissuta negli ultimi cinquant’anni – prima si studia, poi si lavora, poi ci si riposa – è in via di estinzione: negli anni della scolarità si dovrà alternare lo studio con il lavoro e negli anni del lavoro si dovrà tornare ad imparare sui banchi di scuole e università e si vivrà una vecchiaia attiva. E’ evidente allora che parlare del mercato del lavoro non può più significare pensare a modelli di imprenditoria fordista, e quando si parla di normativa non lo si può fare in astratto ma considerando questa nuova realtà.



In particolare, diventa fondamentale quello che secondo il ministro è il cuore del Jobs Act: gli strumenti di politica attiva del lavoro. Sempre di più infatti, come ha evidenziato Mario Mezzanzanica, curatore del Rapporto della Fondazione Obiettivo Lavoro, le imprese più dinamiche ricercano i loro lavoratori via web e si rivolgono a persone meglio qualificate. Il Rapporto mette in luce inoltre il fatto che le imprese italiane ad elevato contenuto tecnologico e di conoscenza, caratterizzate da una maggiore redditività, maggiore efficienza e da una posizione finanziaria più florida, a causa della rigidità del mercato “tendono ad incrementare l’occupazione meno che proporzionalmente temendo di non poter fare il percorso inverso durante le fasi congiunturali avverse”.

Si capisce perciò – osserva Giorgio Vittadini, presidente Fondazione Obiettivo Lavoro, che “la strada verso politiche attive del lavoro è obbligata e che esse non possono che nascere da una conoscenza più approfondita del mercato del lavoro, delle caratteristiche delle imprese, dell’offerta formativa. Non ha più senso pensare a politiche generaliste”. In questo quadro – conclude Vittadini – diventano fondamentali le agenzie, finora definite interinali, oggi sempre più player globali nel campo dell’occupazione a riguardo del ricollocamento di dirigenti o blu collar, della loro formazione permanente, della ricerca di figure specializzate per le imprese. Le imprese private non possono farne a meno nelle loro strategie occupazionali, e le politiche pubbliche sono molto più efficaci se concepite con la loro collaborazione.