Occorre una maggiore flessibilità per quanto riguarda l’età a cui consentire alle persone di ritirarsi dal lavoro, o “rischiamo di avere un problema sociale”. Lo ha detto Giuliano Poletti, ministro del Welfare, dopo che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il referendum contro la legge Fornero proposto dalla Lega nord. Per Poletti, “noi sappiamo che esiste un problema che riguarda in particolare quelle persone che sono vicine alla pensione e che nella situazione attuale di difficoltà hanno perso o possono perdere il posto e non hanno la copertura di ammortizzatori sociali sufficiente fino a maturare la pensione”. Il ministro ha quindi aggiunto: “Credo che qui uno strumento flessibile che aiuti queste persone a raggiungere i requisiti bisognerà sicuramente produrlo”. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Pennisi, consigliere del Cnel e professore all’Università Europea di Roma e alla Unilink.
Perché il sistema previdenziale italiano ha bisogno di questi continui aggiustamenti e modifiche?
Tutti questi problemi non ci sarebbero stati se nel 1995, quando fu approvata la riforma Dini, si fosse stabilito un periodo di transizione di tre anni simile a quello adottato dal governo svedese in circostanze molto simili alle nostre. In Italia invece il periodo di transizione fu allungato a 18 anni su richiesta dei sindacati, in particolare perché l’intera dirigenza sindacale non avrebbe potuto godere delle ricche pensioni retributive in quanto per tanti anni non aveva pagato i contributi. Questi ultimi erano stati sanati grazie alla legge Mosca che riguardava partiti, sindacati, organizzazioni non governative e volontariato, il tutto ovviamente a carico dell’erario.
Veniamo all’attualità. È giusto costringere un muratore o un minatore ad andare in pensione a 67 anni?
Mentre nel pubblico impiego si va in pensione dopo 40 anni di contributi, a prescindere dall’età, nel privato è possibile farlo raggiunti i 67 anni. Ciò in apparenza è uguale a quanto è avvenuto in Germania, dove l’età pensionabile è stata spostata prima da 60 a 65 anni e poi a 67 anni. Nello stesso tempo però i tedeschi hanno previsto un sistema di pensionamento flessibile, rendendo possibile ritirarsi dal lavoro dopo i 60 anni con una penalizzazione diversa a seconda dell’età a cui si va in pensione. Chi smette di lavorare a 60 anni prende un assegno inferiore rispetto a chi lo fa a 67. Questo è un sistema più semplice rispetto al sistema di prestiti previsto dal ministro Poletti, e che estenderei anche a chi vuole andare in pensione a 55 anni.
Secondo lei, verso quale sistema stiamo andando?
Andiamo verso un sistema più flessibile, e sarà possibile andare in pensione prima per poi svolgere lavori part-time, collaborazioni o occuparsi di cose che uno non ha mai fatto prima.
A parte la Germania, a quali altri modelli può guardare l’Italia?
Quando lavoravo per la Banca Mondiale ho contribuito a mettere in piedi il sistema previdenziale di Singapore e Hong Kong. In questi Paesi un cittadino è incoraggiato a lavorare fino a 90 anni, ma gli è consentito andare in pensione dai 50 anni in poi. Per chi resta al lavoro dopo i 70 anni sono riservate mansioni adatte a un anziano, per esempio come maestro d’asilo o insegnante, spesso per poche ore a settimana e con un lavoro semivolontario retribuito in base alle ore svolte.
E per chi va in pensione a 50 anni?
Una persona che sceglie di ritirarsi a 50 anni prenderà una pensione più bassa, e se lo desidera potrà svolgere un altro lavoro anche completamente diverso da quello che aveva fatto fino a quel momento. È a queste soluzioni che dobbiamo guardare anche in l’Italia, e non ad altre misure come al sistema “quota 100” proposta da Cesare Damiano. Il punto è che le persone vanno lasciate libere di scegliere, e poi le pensioni devono essere più o meno alte in base all’età in cui si ritirano dal lavoro.
Secondo l’Ocse, la media delle pensioni in Italia è particolarmente bassa. Per quale motivo?
Le pensioni basse sono in larga parte quelle di persone che non hanno mai versato contributi, e che dovrebbero gravare in larga parte sull’erario anziché sul sistema previdenziale. L’Inps è semplicemente un ufficiale pagatore, e quelle di chi riceve 500-600 euro al mese sono in larga parte pensioni sociali. Si tratta cioè di cittadini che non hanno contribuito abbastanza per arrivare a un minimo previdenziale decente. Questa è assistenza, non previdenza, e le due cose andrebbero distinte.
(Pietro Vernizzi)