Una recente conversazione con alcuni segretari nazionali delle diverse confederazioni sindacali ha permesso di intravedere i possibili scenari dell’azione sindacale stessa, alla luce dell’evoluzione del quadro politico e delle relazioni industriali nei diversi comparti produttivi del nostro Paese.

Il primo dato da rilevare è il fatto che le relazioni sindacali, nonostante le semplificazioni dei media, non possono essere valutate con omogeneità e linee comuni, stante la radicale diversità insita nei diversi settori, anche alla luce della frammentarietà e delle ridotte dimensioni delle imprese in Italia. Infatti, nelle industrie metalmeccaniche e nelle banche, nella Pubblica amministrazione e nei settori ad alta innovazione, nel commercio e nell’area dei media (potremmo andare avanti citando oltre 400 esempi, stante il numero dei contratti collettivi nazionali di settore registrati al Cnel) non possiamo rilevare grandi omogeneità di filosofie e comportamenti.



Anche le scritture delle diverse norme lasciano intravedere diverse scuole di pensiero e di storie, alcune delle quali risalenti all’inizio del secolo scorso (tali e tanti sono i trascorsi di alcuni settori manifatturieri): agricoli ed edili ad esempio, accanto ad altre aree del lavoro manuale e del commercio hanno fatto la storia della contrattazione collettiva, quale contributo ad affermare condizioni minime di tutela e di equità distributiva, partendo dalle primarie forme di regolazione del collocamento, anche con il fine di contenere larghe pratiche di caporalato discriminatorio verso donne, fanciulli e persone con provenienze territoriali “non molto gradite” (gli extracomunitari sono sempre esistiti…).



Fermo restando le grandi diversità sommariamente accennate e tenuto conto che il quadro economico non consente valutazioni molto positive, pur riconoscendo alcune innovazioni legislative introdotte dai recenti provvedimenti (Jobs Act e decreti collegati), gli scenari dell’azione sindacale presentano elementi di discussione assai rilevanti, con una particolare accentuazione degli elementi di criticità determinati dall’andamento dei tassi di rappresentanza e di rappresentatività.

L’abbandono delle affiliazioni alle organizzazioni datoriali di un sempre maggior numero di imprese, accanto alla lenta “erosione” degli iscritti ai sindacati, segnalano un costante affievolimento dell’azione delle Parti sociali, spesso preoccupate di un posizionamento politico rispetto al nuovo corso (il cosiddetto renzismo) piuttosto che di un’innovazione nelle azioni di tutela di aree sociali senza adeguata rappresentanza.



Nel 2015 scadranno gli accordi generali che hanno permesso di rinnovare i contratti collettivi senza grandi drammi sociali (salvo il settore dei metalmeccanici): in uno scenario di sostanziale deflazione le parti dovranno inventarsi soluzioni innovative per poter salvare il ruolo dei contratti collettivi, in quanto, per la prima volta, vi sono seri problemi a riconoscere incrementi retributivi non generati da un reale aumento della produttività del lavoro. Non potranno esserci aumenti salariali solo per il riconoscimento di un potere di acquisto da tutelare, i rischi di taluni sistemi sono tali che, in qualche caso, occorrerebbe restituire denaro alle imprese… paradossi della storia!

Raccordo tra contrattazione nazionale e contrattazione aziendale, coordinamento giuridico e contrattuale tra norme generali e pattuizioni individuali, rigidità delle regole centrali e necessità di adeguamenti aziendali nelle singole imprese: sono questioni che continuano a tenere banco nelle relazioni sindacali dei diversi settori, di fronte all’importanza di ricercare i necessari equilibri tra un quadro di garanzie universali e gli adattamenti alle diverse situazioni specifiche (un vecchio sindacalista mi diceva sempre: come si fa a regolare il part-time in modo general generico per tutti; e infatti cosa c’entra un impianto petrolchimico con McDonald’s?).

E come farebbe la legge, rigida e centralistica per definizione, a regolare la rappresentanza e la contrattazione sindacale nel settore degli occhiali e dei cappelli di paglia, dei lapidei e degli addetti del settore oleo-caseario, delle calzature del Brenta e del tessile abbigliamento di Casarano, delle vetrerie di Murano e delle piastrelle di Sassuolo?

E come introdurre nella contrattazione sindacale le nuove frontiere della conoscenza, il sostegno alla crescita delle competenze professionali, modalità di coinvolgimento e partecipazione dei lavoratori nelle imprese, il rafforzamento delle esperienze formative congiunte in materia sindacale tra direzioni aziendali e rappresentanti dei lavoratori?

Ma soprattutto quale contributo possono dare le relazioni sindacali ordinarie al sostegno di politiche attive rivolte all’incoraggiamento degli investimenti da parte di imprese e imprenditori? Questa è la radicale domanda che le giovani generazioni, in particolare, pongono ai sindacati e ai sistemi di rappresentanza in generale, poiché il lavoro viene generato solo da imprese e imprenditori con nuove idee, soluzioni innovative, produzioni di beni e servizi in grado di competere per qualità e prezzi, aiutati da regole semplici e uguali per tutti e da una burocrazia non nemica.

Intanto che accenniamo ad alcuni nodi delle questioni che stanno davanti alle Parti sociali nel prossimo anno, ci scorrono davanti le immagini televisive dello sciopero generale del 12 dicembre, di Maurizio Landini, di Susanna Camusso e del nuovo leader della Uil Carmelo Barbagallo e di quanto le loro parole e i messaggi trasmessi rischino di non essere compresi, anzi di apparire lontani e non adeguati: e ci sovviene che la realtà è sempre più forte dei pensieri e “le persone capiscono sempre le differenze”, come sosteneva il povero Ezio Tarantelli, l’economista di area cislina barbaramente trucidato trent’anni fa dalle Brigate Rosse.

E intanto che ci avviamo alla ripresa nel nuovo anno, ciascuno di noi, al mattino, in auto o sul treno, in metropolitana o in bicicletta, si ricordi degli oltre 150 anni di sussidiarietà nel nostro Paese, delle storie del dopoguerra e di Peppone e don Camillo, dei mobilieri della Brianza e dei contadini veneti, degli artigiani delle Marche e dei distretti toscani e a scendere nelle valli e pianure della penisola, per riprendere la memoria delle ragioni di chi, personalmente, in famiglia e in modo organizzato, ha contribuito, con il cammino delle formiche, alla costruzione di una solida e feconda economia manifatturiera che, checché se ne dica, continua a essere la seconda in Europa.

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