La vicenda dell’assenteismo di Capodanno dei vigili urbani romani ha riproposto con forza alcune questioni di fondo che il Jobs Act aveva sollevato. La discussione polemica ha puntato tutto sulla validità delle nuove norme anche per i pubblici dipendenti o meno. È puro buon senso rispondere che tali norme non sono estendibili per decreto, ma la questione che si pone è se può essere ancora difesa una così evidente differenza di trattamento fra lavoratori del settore pubblico e del settore privato.
Fin dall’avvio del piano di riforme, il governo ha teso a indicare come collegate le proposte del Jobs Act per il mercato del lavoro e la necessità di una riforma della Pubblica amministrazione. Nell’ambito di quest’ultima, il tema del rapporto di lavoro pubblico è un passaggio essenziale. Si pone il problema della mobilità, delle valutazioni di produttività e anche la gestione con strumenti privatistici di vere e proprie ristrutturazioni di comparti pubblici legati alle riforme istituzionali in corso. Il caso del superamento delle provincie dal 31 dicembre scorso con conseguenti occupazioni di sedi da parte dei lavoratori precari perché “il posto di lavoro non si tocca” ne è un esempio lampante.
Si tratta allora, anche per la Pa, di rivedere e abrogare quelle norme che hanno determinato un dualismo ingiusto fra i suoi dipendenti. Da un lato, chi è assunto per concorso gode di privilegi durante il periodo lavorativo e dopo. A fronte di stipendi, talvolta bassi, vi è l’inamobilità di sede, mansioni, orari, permessi e poi ancora un trattamento di fine rapporto e pensionistico non paragonabile con industria e servizi privati. Dall’altro, un esercito di precari, personale in attesa di essere stabilizzato, essenziale per il funzionamento di molti uffici, che non ha nemmeno tutela qualora si decidesse semplicemente di non rinnovare i contratti annuali.
Molte disfunzioni del settore dei servizi di ex municipalizzate sono dovuti agli squilibri della contrattazione lavorativa della Pa. Oltre ai vigili di Roma, si è registrato l’assenteismo di molte imprese del settore raccolta e smaltimento di rifiuti, nei trasporti pubblici, nelle aperture dei musei, ecc. Tutti servizi che nelle festività dovrebbero essere il biglietto da visita di un Paese che vede il turismo come uno dei settori economici trainanti per la propria economia. Eppure anche in questi giorni alcuni sindaci hanno proposto di bloccare il processo di riordino delle partecipazioni pubbliche per difendere aziende municipalizzate che sarebbero da privatizzare immediatamente.
Con la riforma della Pa si deve quindi superare in tempi brevi un dualismo fra lavoratori pubblici e privati, che è oggettivamente uno squilibrio che blocca la modernizzazione di molti servizi che chiedono maggiore efficienza e uno sviluppo di nuovi mercati. Potrebbe essere questo un primo compito per l’Agenzia nazionale per il lavoro che è prevista nel Jobs Act e dovrebbe essere oggetto del prossimo provvedimento attuativo. Un’Agenzia che fin dell’avvio si occupi di tutti gli occupati, senza distinzione fra Pa e settore privato.
Ha ragione Francesco Giubileo che, recentemente su queste pagine, ha segnalato il pericolo di una agenzia mostro. Ciò che serve non è un carrozzone che assorbe tutti i servizi territoriali e dall’alto determini il funzionamento dei servizi con un unico modello. Può essere però la svolta attesa da tempo se l’Agenzia unica diventa il centro propulsore di procedure comuni, programmazione di obiettivi generali, sede di elaborazione di costi standard, sistema di valutazione degli obiettivi raggiunti a ogni livello, dotazione di strumenti comuni per la gestione dei servizi, capacità di realizzare una rete di servizi pubblici e privati valutati e pagati a raggiungimento di obiettivi.
La fallimentare esperienza del programma Garanzia Giovani indica sicuramente una strada da non ripercorrere. È mancata completamente la capacità di coinvolgere i livelli regionali e territoriali intorno a obiettivi chiari da raggiungere e quindi si è nell’impossibilità di operare una valutazione dei risultati. Ripensare i servizi al lavoro, e quindi al modello di Agenzia che può coordinarli, chiede di ridisegnare i servizi a partire dalla centralità della persona e del suo bisogno di lavoro.
Il processo di occupabilità che va offerto – supportato da risorse che garantiscono i servizi e il sostegno al reddito – deve vedere in una nuova occupazione il risultato cui corrisponda per l’operatore pubblico o privato, che ha seguito il percorso, un riconoscimento economico che copra i costi e riconosca un risultato a processo concluso.
Partendo dalla persona e dai suoi bisogni, lasciando libertà di scelta rispetto a operatori pubblici o accreditati, compito nazionale è fissare obiettivi, fornire una rete dati di conoscenza (le Comunicazioni obbligatorie sono essenziali per le politiche attive territoriali); le istituzioni territoriali potranno poi sviluppare eccellenze nella collaborazione locale fra operatori pubblici e privati, essendo chiare le risorse disponibili e gli obiettivi da raggiungere.
Le molte esperienze positive sviluppate in questi anni in Lombardia fanno emergere che non vi è bisogno di una agenzia carrozzone ma di un riferimento centrale di coordinamento, programmazione e valutazione. Comuni, provincie, sindacati, reti sociali e Terzo settore possono partecipare alla governance e al processo di programmazione, ma è nella loro capacità di realizzazione di reti virtuose sul territorio che misurano la capacità pratica di proporre soluzioni vantaggiose per tutti.
La Pa chiede oggi soluzioni simili. La riorganizzazione dovuta al superamento delle provincie pone un problema simile a quello di molte crisi aziendali con in più il vincolo di non creare licenziamenti. Non sarebbe un importante avvio per nuovi servizi al lavoro? Non per gonfiare uffici inutili di nuovo personale, ma per sperimentare realmente che difendere il lavoro non è tenere il posto inutile e improduttivo, ma favorire i passaggi da lavoro a lavoro sviluppando nuove opportunità occupazionali.