A seguito di quanto si era creato con il problema esodati, e per quanto conosciuto del quadro congiunturale cui insisteva una disoccupazione giovanile – a dire il vero già quasi connotata – da fattori strutturali, nel 2013 si decise di affrontare un problema. Era la pressione il problema – per il quale bisogna anche comprenderli questi politici (governanti o meno), questi manager (capaci o meno), questi sindacalisti (impegnati sinceramente o meno), più di altri (sicuramente professori, economisti o no) in poche parole classe dirigente.



Tutti – sottoposti a un cumulo di pressione distribuita in più pressioni e spesso investiti da numeri e cause dei numeri in grado di provocare un eccesso d’interventi di autorità o un inebetimento paralizzante – ponevano come soluzione del galoppante problema della disoccupazione giovanile la scorciatoia del “togliamo i vecchi e mettiamo giovani”, ignari che poi qualche tabella Istat, un pochino più approfondita, avrebbe permesso di gridare “il Re è nudo”.



Mi si perdoni, ma si deve riconoscere che un giudizio positivo richiede che almeno i numeri siano sani, anche se il metodo è insano, visto nella globalità di scenario nazionale. Si sostenne allora che si trattava di un approccio guidato dal risparmio dei costi, ma così raffazzonato da avere vita corta, soprattutto perché il “gioco delle tre carte” è, e resta sempre, emergenziale. Mentre è da un Sistema-Paese serio che nasce la vera occupazione ed è da un contesto normativo e gestionale adeguato del mercato del lavoro che nasce la buona occupazione. La squadra PP (Padoan e Poletti), per nostra fortuna, non ha abbandonato la linea della prudenza e quella dei numeri sani.



Perché questa lunga premessa? Perché quando si scrisse “riformare la riforma” (si veda, per ultimo, questo articolo pubblicato su queste pagine) si aveva ben presente quell’articolazione che lega il lavoro, oltre che all’istruzione, alla pensione. Un inizio di sfida non solo intellettuale, dove – volendo cimentarsi in fantasia – varrebbe anche inserire la previdenza, che collega come un filo rosso, sia per la sanità che per la quiescenza, i vari passaggi in una sorta di successione di cluster integrati tra di loro.

Ma restiamo sul tema. Se colleghiamo le sortite pubbliche dell’ultima settimana, weekend compreso, sulla flessibilità in uscita del mondo del lavoro (e soprattutto non le confrontiamo con quelle della settimana prima) ci accorgiamo che forse il traguardo è possibile. Si badi bene: possibile non significa che sia vicino. È comprensibile che tutti gli interessati ne chiedano l’immediatezza e che il Premier ne debba gestire politicamente i risvolti, con il passaggio di fatica e oneri ai dicasteri interessati. Ma va anche compreso che non va rifatto il cosiddetto “errore Fornero”, assunto a fattispecie, anche se accompagnato alle dichiarazioni di gratitudine del Professor Monti. Insomma in sette giorni, e dopo l’audizione dei Ministri e le sortite di Renzi, si è iniziata a percepire un’aria diversa.

Per attestare questa sorta di cambio d’aria cito solo tre passaggi. Il primo, quello di Boeri, bravissimo ballerino di valzer: non ci sono più passi rigidi, formali e necessari, da scuola (ha archiviato il ricalcolo contributivo totale), ma basta mettersi sul ritmo o sulla melodia. Si può quindi fare “l’ultima riforma” mirando al patto tra generazioni, purché solidale. 

Poi il passaggio di Baretta, che ha confermato, ora, quanto si diceva anni fa, anche se Damiano tace. Tace pensando come attestare i sacchetti di sabbia a protezione delle commissioni Lavoro e delle soglie 97e 41, un po’ come essere sul Piave, mentre Sacconi lo accompagna a distanza di partito, ritenendo che sia bastata una sola volta parlare del tema. Infine, l’ultimo passaggio, quello più stimolante: apparso su Il Messaggero del 27 settembre in un lungo servizio su quanto è già all’attenzione di tutti, e dove un occhiello richiamava a “l’altra proposta” a una “altra versione” di intervento per la flessibilità attesa.

Qual è quest’altra versione misteriosa? I punti per svelarla sono pochi, ma nella pochezza sono significativi e molto vicini alla proposta che già si avanzò tempo addietro, perché in questo caso danno più luce sul luogo comune che una penalizzazione sic et simpliciter vale una copertura dei costi. Ma l’importanza non è nella replica, o nell’adozione a ricalco della stessa proposta, bensì nella comprensione e nella condivisione dei principi. Vediamo.

Padoan ha chiarito che la riforma non può essere a costo zero. La ragione è semplice. Nei conti economici nazionali è previsto che l’Inps incassi un certo numero di contributi e paghi un certo numero di pensioni. Se l’età per lasciare il servizio viene anticipata, l’Inps dovrà pagare da subito più pensioni incassando meno contributi in modo duplice: quelli per gli anni mancanti alla vecchiaia e quelli che i pensionati, in quanto tali, non devono più pagare. Altro minus per un sistema previdenziale a ripartizione. E ripeto questo vale anche se sugli assegni previdenziali viene applicata una penalizzazione, la quale comunque trova un suo limite sociale ed economico

Infatti i pensionandi, esodati o meno (qualifica non indifferente quando si tratti degli uni o degli altri), uscendo prima versano meno contributi (elementare Watson, direbbe Holmes) e non contribuiscono per quanto necessario al pagamento delle loro stesse pensioni. Da qui la penalizzazione, che non copre (varrebbe la pena dire “Ehi, la Regina è nuda!”), perché oltre a costare per i beneficiari direttamente rappresenta un costo indiretto per il sistema, in quanto non centra l’obiettivo di non far gravare sul sistema previdenziale la flessibilità, come atteso dall’Ue e come i suoi fautori hanno sempre sostenuto. In verità non potendo superare le forche caudine di una Commissione europea molto meno flessibile della flessibilità cercata, va fatto un altro possibile percorso.

E se i lavoratori in prossima uscita versassero invece i contributi per riscattarsi gli anni che mancano? Sono contributi calcolati attuarialmente dall’Inps e dovuti per quegli anni che (calcolati sotto regime contributivo ) vanno – per flessibilità – dalla data di uscita per la pensione anticipata alla data da cui decorre la pensione di vecchiaia. Ergo Inps e quindi Stato incasserebbero i contributi, invece di esserne privati. Li incasserebbero favorendo la flessibilità e la volontarietà, cioè la possibilità di accedere alla pensione anticipata a partire da una certa data soglia e con un certo numero fisso di contributi appartenenti a quella soglia. 

Questi due fattori se messi in correlazione mobile come quote, creano un percorso che ogni lavoratore desideroso di smettere di lavorare può costruirsi da solo, purché paghi. Ecco perché si parla di contribuzione volontaria, che ha un senso nella flessibilità in generale e ancor più nei processi di esodo dove sono le aziende a pagare in nome e per conto, e dove gli esodi sono – ad esempio, come nelle banche – volontari.  

Con gli esodi invece obbligatori o con le fuoriuscite ex legge 223 per le ristrutturazioni aziendali, il discorso non cambia di molto. Le aziende pagano l’alleggerimento e/o la riconversione generazionale grazie a specifici accordi sindacali.

Se c’è il quadro giuridico e normativo ad hoc, come quello che si delinea, sindacati e aziende possono scrivere una nuova stagione della contrattazione di livello dotandosi di strumenti di flessibilità atti a gestire, insieme alle altre norme esistenti, i cicli congiunturali o le evoluzioni strutturali dei comparti produttivi. 

Se poi ipotizziamo il bisogno del singolo, il discorso si circoscrive al fatto che se il lavoratore ha le risorse le finalizza in termini di risparmio previdenziale. Se non le ha, può chiedere un prestito previdenziale e incrociare i requisiti che gli vengono richiesti per la pensione anticipata senza dimenticare che lo standard di sistema (e qui la Legge Fornero va bene) è la pensione di vecchiaia e non quella di anzianità o quella anticipata. 

Se non ha le risorse ed è oggetto di espulsione a ridosso o nei 60 mesi che lo separano dalla pensione di vecchiaia, allora è giusto che siano le aziende e Inps a provvedere ciascuno per il suo ruolo: l’Inps assicurando entro 60 giorni, retribuiti dall’azienda, la pensione calibrata su quella di vecchiaia, e le aziende versando o integrando, come da accordi sindacali i contributi, prestito previdenziale o meno.

Restano giuste le osservazioni dei Ministri interessati a segnalare che fattispecie ad hoc richiedono interventi ad hoc, anche preferibilmente nella Legge di stabilità, ma in un quadro che per essere instaurato deve essere ben simulato, calcolato e valutato prima di essere proposto al giudizio e alla validazione definitiva. Detto ciò, il traguardo per “riformare la riforma” è possibile per affrontare tanto esodi futuri, quanto future assunzioni in grado di incrementare gli effetti prodotti dal Jobs Act.