Il decreto legge n. 146 del 2015, che estende le regole sullo sciopero dei servizi pubblici essenziali alle assemblee, che scioperi non sono, convocate nell’ambito dei settori museali e archeologici pubblici, cura i sintomi e non la malattia. Perché le assemblee sindacali degli scavi di Pompei e del Colosseo sono uno dei sintomi di quella malattia che, da qualche anno, ha colpito la rappresentatività dei sindacati. Vediamo meglio la ragione.



A partire dal 2008, i sindacati del settore privato sono entrati in conflitto tra loro, è venuta meno la loro unità di azione, che era rimasta intatta per circa quaranta anni, e quindi la loro rappresentatività che, restando uniti, i sindacati si erano riconosciuti a vicenda. Ne è derivata una malattia che, come un virus letale, ha ben presto infettato il polmone dei sindacati, ovvero il consenso dei lavoratori privati e pubblici che, persa la fiducia verso essi, li hanno abbandonati.



Il sintomo è stato univoco: un’anomala agitazione dei sindacati. E cosi, ad esempio, le organizzazioni dei lavoratori hanno firmato in poco tempo un accordo dietro l’altro per regolare la rappresentatività nel settore privato, quello del 28 giugno 2011, o ancora quello del 31 maggio 2013 o infine il testo unico del 10 gennaio 2014, hanno moltiplicato gli scioperi, hanno dato vita a coalizioni sociali. Ma soprattutto hanno convocato assemblee senza darsi una misura.

E così, da un lato, in particolar modo nel settore privato, si è registrata un’impennata di richieste di assemblee, dall’altro, in particolar modo nel settore pubblico, è stato facile convocare assemblee per far rumore. Ad esempio, hanno fatto molto rumore quelle di Pompei e Roma quando, per finire sotto i riflettori, ai sindacati è bastato che i lavoratori dei siti archeologici, in giornate ad alta affluenza turistica, sospendessero per poco tempo la propria attività e si recassero nei vicini locali per riunirsi in assemblea.



E cosi, si è trasformato in un vero e proprio strumento di agitazione un momento della vita sindacale che, in condizioni normali, non lo è e anzi funziona meglio degli altri perché trova soluzioni concrete a problemi concreti, non impone ai lavoratori i sacrifici dello sciopero, non pesa molto sul datore di lavoro che è tenuto a garantire ai lavoratori la retribuzione fino ad appena 10 ore annue di assemblea.

Se le cose stanno in questo modo, resta allora da chiedersi se non sia meglio provare a curare direttamente la malattia anziché i sintomi. Del resto, a questo fine, trattandosi di malattia della rappresentatività sindacale, potrebbero bastare due semplici precauzioni. La prima, non limitare troppo gli spazi dei sindacati; la seconda, non entrare nel campo della loro autonomia con leggi che rischiano di irrigidirla.

Una cosa è certa. Sino a quando non avverrà la guarigione, le cose non cambieranno. Tanto più se, leggendo i giornali, si ha l’impressione che il conto non sia salato e che a pagarlo siano soprattutto i turisti. Che, male che vada, avranno fatto a vuoto la fila davanti alle biglietterie. 

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