Il “pacchetto lavoro” della Legge di stabilità si presenta ricco. La colorata sintesi delle slides renziane e il sobrio comunicato stampa governativo non permettono un’analisi tecnico/normativa delle novità discusse ieri in Consiglio dei ministri, ma la direzione appare chiara. La Legge di stabilità 2015 fu caratterizzata dal generosissimo esonero contributivo fino a 8.060 euro all’anno (per tre anni complessivi) per le assunzioni a tempo indeterminato. A questa misura, più che alle norme del Jobs Act, si deve l’incremento dei contratti “stabili” (così li definisce il Governo con una parola che appare piuttosto antiquata sulla bocca di chi ha abbattuto il totem dell’articolo 18). I tecnici di palazzo Chigi, assolutamente consci della natura allucinogena di questa norma, hanno alla fine optato per la misura disintossicante più prudente: non un’abrogazione improvvisa della decontribuzione, né una forma diversa di incentivazione (si discuteva di misure selettive, dedicate alle fasce più deboli della popolazione), bensì una diminuzione della dose della stessa droga, ovvero un alleggerimento dei contributi per i contratti a tempo indeterminato del 60% per 24 mesi. 



Si tratta di una soluzione che piacerà alle imprese, poiché è di semplice comprensione e facile accesso, come quella ora vigente. L’occhio del tecnico non può che essere attirato dall’esigua copertura che il Governo ha predisposto (800 milioni), nonostante lo sforamento del budget dell’esonero contributivo 2015; sono queste però considerazioni secondarie per le imprese, che hanno evitato la riproposizione dei cervellotici incentivi “intelligenti” approvati nel 2013 (quelli appunto che piacciono ai tecnici) e manifestamente ignorati dal tessuto produttivo.



La decontribuzione, quindi, sarà ancora una volta la misura lavoristica di cui più si parlerà. Non è però quella culturalmente più rilevante. Vi sono almeno altri tre capitoli accennati ieri dal Premier Renzi che meritano attenzione. 

Il primo è quello delle misure dedicate al welfare aziendale. Con la Legge di stabilità 2016 si potrebbe aprire anche in Italia un vero e proprio “mercato” del welfare aziendale. Pare infatti che il Governo abbia ascoltato le richieste da tempo presentate da dottrina e parti sociali (già presenti in Parlamento in diversi disegni di legge), superando due dei principali ostacoli alla diffusione di piani di welfare nel nostro Paese: l’unilateralità delle misure volte a incrementare il benessere dei dipendenti e l’impossibilità di erogare il premio di risultato aziendale in beni e servizi. 



I dati dell’osservatorio sul welfare aziendale di Adapt confermano il grande impatto che queste norme potrebbero avere sulle imprese: il coinvolgimento esplicito del sindacato nella costruzione dei piani di welfare e la detassazione al 10% del premio di risultato “welfarizzato” (fino a un massimo di 2.000 euro), in un solo anno potrebbero determinare il raddoppio del numero dei piani attivi.

Il secondo capitolo rilevante, per quanto timido, è quello dedicato all’incentivazione economica della partecipazione agli utili dei lavoratori. La strada della partecipazione, infatti, per quanto ancora osteggiata tanto dalle associazioni datoriali (infastidite in particolare dalle forme di partecipazione gestionale) quanto da quelle sindacali (da sempre restie alla partecipazione finanziaria), è un sentiero che guarda al futuro, ai nuovi modi di organizzare le aziende, al diverso riconoscimento che si deve a coloro che sempre più sono collaboratori invece che dipendenti, a relazioni di lavoro cooperative e positive.

La terza misura da monitorare è quella relativa allo Statuto dei lavori autonomi. Il Governo Renzi si è finora contraddistinto per una marcata attenzione al lavoratore dipendente, ben testimoniata dalla costante preoccupazione per l’incremento dell’occupazione “stabile”. Nessun capitolo del complesso Jobs Act (una legge delega e otto decreti legislativi) è dedicato al lavoro autonomo e questo non è ovviamente piaciuto alle quasi 6 milioni di partite Iva che, nonostante la retorica, il fisco e la legislazione avverse, continuano incessantemente a crescere perché molto più adatte a regolare i nuovi lavori rispetto ai contratti “standard”. Con lo Statuto dei lavori autonomi (nome che richiama il famoso progetto del prof. Biagi) e con il nuovo regime fiscale forfettario di vantaggio il Governo vuole provare a parlare a questi lavoratori. 

Il dibattito sarà assorbito dal nuovo esonero contributivo. Misura preziosa nel breve periodo, ma incapace di mettere in discussione le rigidità del nostro diritto del lavoro, che sarebbe invece positivamente ammodernato dall’ampia diffusione del welfare aziendale, dal superamento delle paure verso la partecipazione dei lavoratori alle gestione delle imprese e dall’affermazione della centralità del lavoro autonomo, inteso non come soluzione elusiva, ma condizione volontaria di pari dignità rispetto al lavoro subordinato.

 

@EMassagli