La firma del contratto collettivo di lavoro per il settore chimico e farmaceutico, avvenuta giovedì a Roma, testimonia che non tutti gli attori sociali sono bloccati da ragioni politiche, di ruolo o di schieramento aprioristico. Siamo di fronte, infatti, a una soluzione che tiene insieme tutti gli interessi in gioco, quelli delle imprese e quelli dei 170.000 lavoratori dei settori coinvolti, attraverso soluzioni retributive che, nelle dinamiche dei prossimi tre anni, risultano equilibrate e saranno verificate annualmente in ragione dei tassi di inflazione o deflazione misurati.



Nella sostanza si è convenuto di non erogare, in questo mese corrente, l’ultima tranche salariale del contratto in scadenza il prossimo 31 dicembre, sostituendo l’importo con una formula che, tecnicamente, si chiama elemento distinto della retribuzione e viene riconosciuta per tredici mensilità. Significa che la cifra economica, mediamente 15 euro mensili, non avrà effetti e riflessi su altri istituti quali ad esempio il Tfr; nel 2017 e 2018 l’aumento sarà di 90 euro mensili complessivi e cesseranno di essere erogati i 15 euro del 2016.



Ma la novità sta nel fatto che ogni anno verrà realizzata una verifica sugli incrementi retributivi riconosciuti nell’anno precedente (per esempio, nel 2017 si verificherà cos’è successo nel 2016, nel 2018 quanto accaduto nel 2017, ecc.), in modo che gli scaglioni di aumento salariale vengano effettivamente commisurati al costo della vita reale. Inoltre, sono stati superati alcuni vecchi istituti presenti nel contratto, eredità degli anni ’70-80 e un po’ anacronistici, che sono stati trasformati e dirottati verso il sostegno alle pensioni complementari, pilastro decisivo del secondo welfare integrativo, e a retribuire meglio e di più i lavori disagiati, quali, ad esempio, il lavoro notturno.



Ci sarebbero anche altre novità, ma ciò che a noi interessa è la sostanza, ovvero che ci sono in Italia rappresentanze di imprese e di lavoratori (Federchimica, Farmindustria e i diversi sindacati di settore aderenti alla Cgil, alla Cisl e alla Uil, oltre ad altre sigle minori) che intendono esercitare il ruolo per cui sono nate e si sono sviluppate: fare i contratti e gli accordi, fare cose utili e senza ideologie, fare cose che servono, in silenzio, senza andare sui giornali e passare il tempo nei salotti televisivi. 

Chi conosceva Giorgio Squinzi prima che tre anni fa diventasse presidente di Confindustria? Eppure Squinzi, imprenditore chimico e per molti anni capo della Federchimica stessa, ha sempre fatto il proprio mestiere, contribuendo a fare del settore un’area decisiva nelle relazioni industriali e i diversi successori ne hanno portato avanti la tradizione innovando e perseguendo i dati della realtà (la crisi c’è stata per tutti). Infatti, Landini e compagni sono lontani anni luce, fanno parte di un altro mondo! C’è un’Italia che vuole fare e non solo andare in piazza, un’Italia che intende realizzare cose buone e utili: questa “Italia del fare” vuole esistere e deve essergli concessa la libertà di farlo.

Un’ultima annotazione per segnalare che, comunque, le cose non avvengono a caso e nel giro di una notte: fare un contratto resta un’operazione complessa sia sul piano normativo che di politica economica (si spostano milioni di euro!); un contratto viene preparato, nel silenzio, lavorando con diplomazia per smussare angoli, comporre interessi diversi e spesso distanti, scambiandosi informazioni, preparando le diverse sessioni di lavoro e di negoziazione.

È un lavoro di settimane e mesi, su cui si può disquisire e che si può anche criticare: tuttavia non si può non riconoscere che anche questo è segno di vita attiva, costruttiva, per un buon presente e di speranza per il futuro.

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