Attendiamo di leggere il testo definitivo, ma dalle anticipazioni fatte dallo stesso Premier e depurandole dalla ormai consueta enfasi con la quale lo stesso le ha presentate, non credo che questa Legge di stabilità passerà alla storia; non di certo almeno per gli interventi sul fronte pensionistico. Sia ben chiaro: condivido assolutamente la scelta di rinviare il tema della flessibilità in uscita. Il tema è delicato (sia per gli oneri connessi, sia per i riflessi sociali) e necessita di una discussione seria e approfondita, soprattutto nel momento in cui molti cercano di strumentalizzarne il fine; per alcuni, infatti, la flessibilità, anziché essere elemento di responsabilizzazione previdenziale, diventa il veicolo attraverso il quale reintrodurre surrettiziamente le pensioni di anzianità cancellate con la Legge Fornero.
Il nostro sistema previdenziale sta ancora pagando (e pagherà per molti anni) gli effetti finanziari della abolizione degli “scaloni” (introdotti dalla riforma Maroni e cancellati poi dall’allora ministro Damiano); bene quindi se per non ripetere errori già commessi si rimanda ad altro provvedimento la valutazione e l’introduzione di sistemi flessibili di pensionamento.
Fatta questa doverosa premessa, e volendo entrare nel merito dei provvedimenti previdenzialmente rilevanti proposti nel Ddl Stabilità, non posso che apprezzare la necessaria proroga della cosiddetta “Opzione donna”, prendere atto dell’ultima (ma sarà l’ultima?) salvaguardia degli esodati e rappresentare un certo scetticismo sull’ipotesi del “part time pro pensione”.
Ma andiamo con ordine. Sul primo punto, si trattava di un atto dovuto. Il meccanismo che concede la possibilità alle donne (con 58 anni di età e 35 di contribuzione, maturati entro il 2016) di anticipare la data di pensionamento, optando per un calcolo del trattamento integralmente contributivo, pur comportando un (contenuto) maggior onere sul piano finanziario nel breve periodo, risulta neutrale se non addirittura economicamente vantaggioso per le casse statali nel lungo periodo.
Per quanto riguarda, invece, l’ennesimo intervento di salvaguardia in favore degli esodati, rimane forte il dubbio che possa essere quello definitivo. Oramai è nota la capacità di catalogare come tali anche soggetti che, ben lontani dall’esserlo effettivamente, sono accomunati ai primi solo dalla necessita di tutela sociale.
Da anni si ribadisce la necessita di distinguere gestionalmente, contabilmente e finanziariamente la spesa pensionistica da quella assistenziale; utilizzare lo strumento pensionistico come ammortizzatore sociale oltre a rendere sempre più “inquinata” la nostra spesa previdenziale, mostra la scarsa capacità di ragionare in maniera programmatica ed efficiente sulle difficoltà di reinserimento nel mondo del lavoro. In altri termini, di fronte a un evento socialmente traumatico, quale la perdita del posto di lavoro, la soluzione non può essere sempre quella di anticipare il momento pensionistico facendone gravare il relativo costo sulla collettività.
La terza novità riguarda, infine, la possibilità di stipulare un accordo individuale tra il lavoratore – cui manchino tre anni per il pensionamento – e l’impresa, in base al quale al primo, a fonte di una riduzione dell’orario lavorativo, venga erogata in busta paga anche l’intera contribuzione che sarebbe stata altrimenti versata dal datore di lavoro all’Inps. Contemporaneamente al medesimo vengono anche riconosciuti i contributi figurativi utili alla maturazione del trattamento pensionistico.
Sul punto, la criticità è determinata dall’appettibilità di tale strumento che di fatto comporta un onere maggiore per le imprese, le quali dovranno riconoscere al dipendente contributi pieni ancorché questi lavori parte time. È chiaro che saranno portate a usarlo soprattutto le aziende per le quali il mantenimento in forza del dipendente rappresenti più un onere che una utilità; in questo caso, infatti, l’impresa tenderà a valutare più il risparmio di spesa in termini di salario (a fronte di una riduzione dell’orario di lavoro) piuttosto che il maggior esborso dei contributi previdenziali (non ridotti nonostante il part time).
Temo quindi che il successo di tale strumento sarà maggiormente condizionato dall’iniziativa dell’impresa piuttosto che dalla necessità del lavoratore, con la conseguenza che la scelta di “flessibilità” di quest’ultimo sia più subita che cercata.
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