Scade in questi giorni un ulteriore progetto di “alternanza scuola-lavoro” su un bando pubblicato dalla Regione Veneto con fondi europei Fse. Un’opportunità, credo, prevista anche dalla altre Regioni italiane. Come sempre, negli ultimi anni, anche il mio liceo, che accoglie 2.150 studenti, ha aderito a questo nuovo bando, facendosi poi promotore, come capofila, dell’adesione di diversi altri licei veneti.



La ricerca dei partner aziendali, è giusto dire anche queste cose, non è stata difficile, per via di relazioni consolidate, ma anche di una sempre maggiore sensibilità che definirei “di sistema”, nonostante il momento non facile. Nel senso che sempre più docenti, ma anche mondo dell’impresa, comprendono il valore, appunto, “di sistema” di queste esperienze di “alternanza”, per via della convinzione che “il lavoro di per se stesso è formativo”, cioè orientante, nel concreto, le scelte, i talenti, le sensibilità, le opportunità.



L’accordo, di questi giorni, tra Stato e Regioni sulla sperimentazione per il biennio 2015-2017, prevista dal Jobs Act, di una alternanza “rafforzata” e di un apprendistato di primo (qualifica) e di terzo livello (alta specializzazione), è un’altra buona notizia. Per il momento, questo accordo troverà attuazione solo nella formazione professionale regionale, perché per le scuole statali si rimanda a uno specifico decreto interministeriale, ancora in elaborazione.

In poche battute, l’accordo in conferenza Stato-Regioni prevede percorsi con contratti di apprendistato o di alternanza per il 50% dell’orario annuale di lezione per tutti gli studenti della formazione professionale. Nello specifico, 40% di apprendistato al secondo anno del tempo-scuola e 50% dalla classe terza, con l’obiettivo di una certificazione di specializzazione tecnica. Dalle attuali, quindi, 150-200 alle 400 ore. Un bel passo in avanti. 



Il finanziamento è sui 200 milioni da parte del governo, per due anni. Per le imprese sono già previsti incentivi e agevolazioni, ma pensare che 60.000 giovani saranno coinvolti credo sia un bene per tutti. I centri di formazione coinvolti sono 300, presenti in particolare al centro-nord, mentre il sud ancora arranca. In sintesi, questo accordo è un vero passo in avanti verso quel “sistema duale” che è la vera forza del “sistema tedesco”, il quale, lo sappiamo, registra tassi di disoccupazione giovanile insignificanti rispetto ai nostri. Proprio perché governa in modo concreto il raccordo tra formazione e lavoro.

Resta, per tutte le scuole superiori italiane, quanto previsto dalla “buona scuola” (legge 107 del luglio 2015), cioè l’alternanza, a partire dalle classi terze, di ben 400 ore per i tecnici e professionali e di 200 ore per i licei. Sapranno le scuole, che sinora hanno coinvolto solo l’8% di studenti, organizzare questo parterre di percorsi, e il mondo del lavoro in che misura vi saprà corrispondere, sapendo della situazione a macchia di leopardo, sul territorio italiano? Una bella sfida, che va presa sul serio, da tutti gli attori in campo. Sempre per corrispondere a quel valore aggiunto per i nostri giovani: “Il lavoro è di per se stesso formativo”.

Ma non basta che si parli di lavoro perché le competenze siano poi reali, trasparenti, evidenti, in grado di consentire a chiunque di dire ciò che sa fare, oltre ai talenti e alle intenzioni sulla carta. Proprio per questo motivo vanno ulteriormente incoraggiate le collaborazioni tra imprese e ambiti formativi.

Penso qui, ad esempio, al programma intitolato “Allenarsi per il futuro” promosso dalla multinazionale tedesca Bosch, in collaborazione con istituzioni e scuole. Saranno 200 gli incontri che la Bosch promuoverà su tutto il territorio nazionale con i nostri giovani per promuovere le esperienze di alternanza scuola-lavoro intesa in termini di prevenzione della dispersione e quindi della disoccupazione giovanile. Una proposta di formazione pratica, con tirocini e laboratori nelle aziende.

Non da ultimo, ci soccorre il rapporto dell’Isfol, presentato nei giorni scorsi, che riconosce una concreta pari dignità a tutto il mondo dell’istruzione professionale. Il monitoraggio compiuto dall’Isfol ci offre dati importanti, visto che nel 2013-2014 gli iscritti a questo segmento formativo sono risultati in tutto 316.000, con un 50% di ragazzi che, alla fine del percorso, ha trovato un’occupazione. La filiera professionale quindi si conferma molto attiva a favore dei nostri giovani e del sistema Paese, perché porta a un positivo grado di professionalità i nostri studenti, in risposta alle opportunità lavorative. Segno, aggiungo, del fatto che le metodologie attivate, cioè la pratica laboratoriale, offre margini positivi di motivazione e di conseguimento degli obiettivi formativi.

I decreti attuativi del Jobs Act vanno quindi misurati sugli effetti, cioè sul raggiungimento di questi obiettivi, magari sottolineando, per ogni segmento di studio, le proposte innovative che si dimostrano capaci di contrastare nei risultati, e non solo nelle intenzioni, la dispersione e la disoccupazione giovanile. Un’azione in sinergia, quindi, capace di valorizzare i diversi talenti dei nostri ragazzi, affinché ciascuno possa trovare la propria strada nella vita.

Il passo ulteriore, ancora assente nel contesto italiano, è la traduzione delle “competenze professionali” in una sorta di portfolio, cioè in un libretto delle competenze spendibili, già dimostrate, per consentire agli stessi ragazzi, negli anni, di corrispondere alla sempre crescente flessibilità del mondo del lavoro, con protocolli che possano essere riconosciuti, nella loro validità, in tutto il nuovo contesto globale. Cioè un libretto con analitica “certificazione delle competenze”. Un passo non so in che misura sperimentato nel nostro mondo del lavoro, mentre è già diffuso nei Paesi del Nord Europa.