Il tema “previdenza” e riforma pensioni torna caldo in questi mesi, in particolare per l’apertura di Renzi e del ministro del Lavoro Poletti riguardo le proposte avanzate dal Presidente Inps Tito Boeri. Il dibattito riguarda in estrema sintesi due temi: una “flessibilità” intesa come anticipazione di accesso alle pensioni, pena un assegno più basso; un reddito minimo per gli over 55, come ponte per arrivare alla pensione. Entrambe sono proposte condivisibili, tuttavia queste misure si scontrano con la loro sostenibilità economica. L’Italia presenta un debito pubblico tremendo (al limite del default), un passivo (o meglio voragine) nelle casse dell’Inps che dal 2012 (dopo l’incorporazione dell’Inpdap) è arrivato a 30 miliardi di euro e, infine, un “indice di dipendenza” (in sintesi, il rapporto tra lavoratori e soggetti a carico) al 54,6% (il quinto peggiore nel contesto europeo). Alla luce di questi tre dati una possibile “flessibilità” del sistema previdenziale è quasi impossibile, anche perché una spesa sociale concentrata quasi esclusivamente nel sistema previdenziale è una spesa “irreversibile”, ovvero una volta avviata non si può più tornare indietro e le conseguenze ricadono sulle generazioni future.



Lo squilibrio presente oggi nelle casse dell’Inps è da imputare innanzitutto al fatto che per anni l’istituto è stato (e in parte lo è ancora) considerato come una sorta di “salvaguardia” delle casse previdenziali private a rischio di fallimento e contemporaneamente negli anni ’80 è stato messo ancora più in difficoltà dalle baby-pensioni e dai generosi pre-pensionamenti a carico della collettività (attraverso un aumento del deficit pubblico). Non avendo minimamente pensato alle “scellerate” conseguenze di una politica del genere, portata avanti dal governo socialista di Craxi o dal pentapartito di matrice andreottiana, con una forte complicità del Partito comunista italiano che nel frattempo garantiva la pensione al suo bacino elettorale, ovvero la classe operaia, che certo avrà anche lavorato 50anni in “fonderia”, ma in quegli anni non ha effettivamente versato i contributi corrispondenti alla pensione che ancora oggi riceve.



I generosi coefficienti di reversibilità basati sul sistema retributivo e non contributivo sono sotto ogni punto di vista un furto alle generazioni future, perché si finanzia in parte con i contributi attuali e in parte con la spesa pubblica. Da qui la necessità negli anni ’90 della Riforma Dini, che ha segnato l’inizio della rivoluzione del sistema previdenziale in Italia, scaricandone tutti gli effetti negativi sulle attuali generazioni.

Questo percorso giustifica gli aggiustamenti imposti della Riforma Fornero, che gli italiani hanno interpretato come imposizione dell’Ue. Semmai, però, le richieste comunitarie hanno posto gli italiani davanti al problema di sostenibilità del sistema previdenziale tutt’altro che concluso. È facile prendersela con la Troika o con l’ex Ministro Fornero, ma diciamo la verità: se oggi siamo a questo punto è perché i nostri “cari” nonni pensionati hanno letteralmente “compromesso” il futuro dei giovani pur di avere una bella pensione, che oggi può essere anche 1.000 euro, ma se non correttamente proporzionale ai versamenti fatti durante la loro carriera occupazionale, la differenza la pagano e la pagheranno i loro figli e nipoti. Non solo in termini di bassa pensione, ma avendo utilizzato il debito per sostenere la spesa pubblica oggi non ci sono soldi per finanziare adeguatamente gli investimenti pubblici (quindi rilanciare la domanda con politiche keynesiane). E se guardiamo il costo del lavoro, la voce più rilevante del cuneo è proprio quella previdenziale.



Senza mezzi termini è necessario ristrutturare completamente il sistema pensionistico italiano, va interamente ripensato il modello di calcolo delle pensioni già in essere secondo dei “massimali” all’interno di determinate fasce di reddito annuale e una redistribuzione delle pensioni che possa consentire di mantenere la spesa previdenziale sostenibile nel breve-medio termine. In altri termini, vanno ritoccate le pensioni di tutti, da quelle d’oro fino a quelle di 1000-1500 euro se il rapporto contributi/liquidazione previdenziale è sproporzionato. 

Va pensato anche in che modo fare questa riforma: sarebbe opportuno che l’entità stessa dell’Inps possa “svincolarsi”, attraverso anche una modifica costituzionale, dal cosiddetto principio dei “diritti acquisiti”, per evitare ricorsi alla Suprema corte, “dolorosissimi” in termini di conti pubblici (e in certi casi irresponsabili verso la sostenibilità del sistema-paese).

Solo in presenza di una riforma “strutturale” del sistema pensionistico italiano possiamo prendere in considerazione la “flessibilità” proposta dal presidente dell’Inps Tito Boeri (dove l’elemento di contrasto sarà la sanzione da applicare – si parla di circa il 15-30% del valore della pensione lorda) e accogliere anche la possibilità di un reddito per i disoccupati di lungo periodo over 55 che possa garantire a queste persone un sostegno temporaneo fino alla pensione. Una misura che si basa anche sulle difficoltà di ri-collocarle nel mercato del lavoro.

Infine, vorrei evidenziare che contestare la generazione oggi in pensione non vuol dire che non si è d’accordo con il contrasto all’evasione fiscale, l’eliminazione dei vitalizi ai politici, alla patrimoniale per i redditi elevati e così via… Semplicemente la spesa previdenziale assume oggi in Italia una dimensione “titanica” da centinaia di miliardi di euro e la riduzione del “costo” della politica, anche se di alcuni miliardi (assolutamente condivisibile da chi scrive), inciderebbe di un nulla in quella previdenziale, mentre tematiche come l’evasione fiscale (che fino all’effettivo ottenimento delle sanzioni resta una voce senza copertura) o la patrimoniale sono incassi che andrebbero comunque spesi per una questione di equità sociale in riduzione del costo del lavoro o in investimenti per rilanciare il nostro Paese. Dispiace, ma il sistema previdenziale italiano si può salvare soltanto in un modo: riformando se stesso.