Il disegno legge di stabilità approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso mese di ottobre interviene anche in materia pensionistica. Oltre alle comprensibili misure di razionalizzazione, spesso si tende ad andare oltre con ulteriori obiettivi di riforma del sistema pensionistico. Dopo il drastico innalzamento dell’età pensionabile, operato dalla riforma Fornero (senza tra l’altro prevedere regimi transitori che hanno comportato penalizzazioni notevoli in capo agli “esodati” con la conseguente necessità di ricorrere, finora, a sei salvaguardie), ci sarebbe una sorta di “comune intendimento” di ridurre il limite di età per accedere al pensionamento.



Il problema è naturalmente di copertura finanziaria e risulta difficile reperire i fondi tramite ulteriori margini di flessibilità, che l’Ue non vedrebbe certo di buon occhio se destinate a finanziarie la spesa pensionistica, già piuttosto alta nel nostro Paese: secondo i dati riportati nel rapporto annuale, nel 2014 l’Inps ha sostenuto una spesa complessiva di circa 269,6 miliardi di euro a favore di 15,5 milioni di beneficiari, con un’incidenza del 15,3% sul Pil.



Sull’argomento esistono a oggi almeno tre dossier aperti: una proposta di legge di iniziativa parlamentare concernente il pensionamento flessibile, strenuamente difesa da Damiano e fortemente criticata da Boeri perché troppo onerosa; una proposta presentata dallo stesso Presidente dell’Inps, Tito Boeri, quasi “respinta al mittente” dal Governo Renzi e, infine, la proposta governativa contenuta nel disegno legge di stabilità; su quest’ultima vorrei soffermarmi in questa sede.

L’art. 19 del Ddl introduce, per il settore privato, una specifica disciplina transitoria, volta alla trasformazione da tempo pieno a tempo parziale del rapporto di lavoro subordinato in prossimità alla pensione, per favorire prassi di cosiddetto “invecchiamento attivo“: il datore di lavoro e il dipendente con determinati requisiti anagrafici e contributivi concordano la trasformazione del rapporto di lavoro, con il riconoscimento della copertura pensionistica figurativa a carico dello Stato per la quota di retribuzione perduta e con la corresponsione al dipendente, da parte del datore di lavoro, di una somma pari alla contribuzione pensionistica che sarebbe stata a carico di quest’ultimo, relativa alla prestazione lavorativa non effettuata.



La disciplina ipotizzata pone alcune condizioni:

Il dipendente, titolare di un rapporto a tempo pieno e indeterminato, deve maturare, entro il 31 dicembre 2018, il requisito anagrafico per il diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia e aver maturato (al momento della trasformazione del rapporto) i requisiti minimi di contribuzione per il diritto al medesimo trattamento;

L’accordo per la trasformazione del rapporto deve riguardare un periodo di tempo non superiore a quello intercorrente tra la data di accesso al beneficio in esame e la data di maturazione del suddetto requisito anagrafico;

La riduzione dell’orario di lavoro deve essere pari a una misura compresa tra il 40% e il 60%.

Il riconoscimento del beneficio avviene tramite l’Inps, nel rispetto di un limite massimo di spesa pari a 60 milioni di euro per il 2016, 120 milioni per il 2017 e 60 milioni per il 2018. In sostanza, si “pensionerebbe” parzialmente il lavoratore, il quale non dovrebbe subire forti decrementi di stipendio, dato l’accredito dei contributi residui in busta paga.

Al datore di lavoro la norma non comporta obbligo di nuove assunzioni, né risparmi di sorta, dovendo versare comunque i contributi parzialmente all’Inps e parzialmente al lavoratore. Lo Stato, infine, si accolla l’onere della contribuzione figurativa, cioè ulteriore spesa nei limiti su riportati.

Tenuto conto dello stanziamento per il 2016 (60 milioni), secondo un calcolo della serva sui dati Inps al 2014, il costo medio contributivo per i lavoratori dipendenti si attesterebbe sugli 11.000 euro: stiamo quindi parlando di un numero di lavoratori che potrebbe oscillare all’incirca tra 9000 e 13000 persone per il prossimo anno, a seconda che optino per un part time al 40% o al 60%.

Per semplificare ulteriormente: pochi interessati, sempre su base volontaria, lavorando più o meno la metà prenderebbero circa due terzi dello stipendio, compensando il resto con maggior tempo libero, mentre il costo per l’azienda rimarrebbe inalterato. Così, a naso, non mi sembra una misura né allettante, né incisiva, forse più destinata a placare minoranze politiche riottose che a favorire lo sviluppo del welfare.