La notizia dei licenziamenti alla cartiera Pigna dei lavoratori assunti solo alcuni mesi fa con il contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs Act non è inattesa, pur nella sua brutalità e con la sua carica di polemiche e di sottintesi, che poi tanto sottintesi non sono. Ma come – si chiederanno alcuni -, il Jobs Act non era la panacea della crisi, la soluzione di tutti i problemi insorti con lo sgonfiamento della grande bolla speculativa edilizia nel lontanissimo 2008? Eccola, si dice e si scrive, la verità drammatica, lo svelamento degli inganni renziani, la dimostrazione che l’articolo 18 era non solo utile ma proprio necessario per difendere i lavoratori dipendenti dalle decisioni gravi tanto quanto grevi di dirigenti e padroni insensibili. Non si doveva consentirne l’abolizione, non si doveva permettere a chi predica il nuovo, ma poi considera “nuovo” solo quel che in realtà è un ritorno al passato, e a un passato retrivo, oscurantista. Financo medievale, direbbe (dice?) qualcuno. Addirittura medievale, ribattono a manca (o a destra, dipende dai punti di vista): macché questi licenziamenti sono la dimostrazione che la legge funziona, che le aziende devono poter licenziare per poter meglio assumere. Insomma, è la legge del mercato, del va e vieni, di chi deve sempre pensare al futuro delle imprese come al primum immobile di ogni percorso di ripresa economica.



Ma il punto è un altro: il focus del Jobs Act era davvero l’accoppiata assunzione facile/licenziamento libero? Davvero quando si scrisse e si conclusero i contatti Governo-sindacati su questo tema (perché, sia pur senza dirlo, ormai sappiamo che il Jobs Act fu approvato dopo lunghe e complesse trattative sotterranee tra inviati renziani e parti sociali) la discussione si concentrò sul licenziamento libero e facile? No, il focus del Jobs Act non era, non è, la libertà, ma una nuova e diversa forma di tutela per i lavoratori: non più dentro l’azienda, bensì fuori. 



In altri termini, non è più possibile, forse neppure economicamente e socialmente giusto, continuare a pensare che il posto di lavoro sia una variabile indipendente dall’andamento delle imprese e dei mercati. In realtà, il ragionamento fatto allora fu diverso: le imprese devono adeguarsi a una realtà sempre più rapidamente mutevole e i posti di lavoro devono seguire questo andamento. Quindi, il focus non è, non deve più essere, messo sulla conservazione di quel che c’è, bensì deve spostarsi su quel che si crea. La scommessa del Jobs Act è tutta compresa in questi confini, in questa scommessa: tutelare i lavoratori non dentro l’azienda, ma nel percorso tra una azienda e l’altra, tra un lavoro e l’altro.



La domanda di fondo da porsi, di fronte ai lavoratori della Pigna, è dunque se il Jobs Act è stato applicato fino in fondo o se, come troppo spesso avviene, ci si è concentrati su quanto i media hanno ritenuto più importante e si è invece dimenticato il resto. In particolare, sembra sparita dal discorso la parte più complessa di quella legge, e cioè quella che prevedeva la costruzione di un sistema di accompagnamento da un lavoro all’altro, di formazione permanente delle persone. Ecco, il confronto (non intellettuale, ma pratico, concreto) più che sui licenziamenti, deve riguardare la creazione, o la non creazione, di questo sistema. 

Otto mesi sono troppo pochi per giudicare? Non è vero, essi sono più che sufficienti per capire se il Jobs Act è stato solo il riflesso giuridico di una discussione ideologica, ovvero se davvero esso è stato un momento vero di avanzamento delle garanzie e delle tutele. Il rischio, infatti, è che sia esistita anche un’ideologia anti-articolo 18, tanto quanto ne esiste(va) una di segno opposto. Due ideologismi uguali nella loro irrealtà, e lontani entrambi dalla vita concreta delle persone. Le quali invece, a partire proprio dai licenziamenti di cui si discute oggi, hanno bisogno di sapersi accompagnate, aiutate nella ricerca di lavoro, hanno necessità di poter contare su una pluralità di soggetti (pubblici, privati, del privato sociale), che non le lascino sole di fronte a un mercato dal quale si sentono escluse e che anzi considerano un nemico.

Se nessuna tutela sarà messa in campo, se le sole agenzie cui essi potranno affidarsi saranno i centri di collocamento pubblici, con il loro carico di speranze troppo spesso disilluse, allora sarà giusto parlare di fallimento operativo, l’ennesimo, di una riforma teoricamente ottima.

Il focus del Jobs Act era infatti quello di combattere la solitudine delle persone: quindi è proprio adesso che si potrà capire quanto sia vera questa legge: nella convinzione che se essa sarà umana, cioè per l’uomo, allora sarà anche “vera”.

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