Riforma pensioni 2015, il commento sulla proposta del Presidente dell’Inps Tito Boeri Tra i dossier aperti in campo previdenziale, che possiamo definire almeno concettualmente collegati alla legge di stabilità, meritano senz’altro attenzione le proposte recentemente formulate dall’Inps con il titolo “Non per cassa, ma per equità“. La proposta di legge si fonda sostanzialmente su due punti: abbattere la soglia di povertà, riducendola di circa il 50% al di sopra dei 55 anni di età; introdurre una flessibilità sostenibile, facilitando la transizione dal lavoro alla pensione e viceversa.
Il primo punto intende offrire una protezione sociale istituendo un reddito minimo (sostegno di inclusione attiva, “SIA55”, nella proposta di legge) a favore degli over-55 disoccupati. Si tratta certamente di un’età critica, in cui si è troppo vecchi per trovare un impiego e troppo giovani per andare in pensione, con l’aggravante che l’innalzamento dell’età pensionabile, operato da vari provvedimenti legislativi, ha allungato i tempi per fruire della pensione, coprendo solo parzialmente l’assenza del lavoro con sussidi di disoccupazione: durante la crisi (2008-2013) i disoccupati in stato di povertà tra i 50 e i 59 anni sono più che triplicati.
L’importo del sostegno di inclusione sarebbe pari a 500 euro al mese (a regime) per un famiglia con almeno un ultracinquantacinquenne, con possibilità di incremento in presenza di altri soggetti nel nucleo familiare. Il diritto alla percezione sarebbe legato a parametri patrimoniali e all’immediata disponibilità al lavoro fornita dagli interessati; in caso di nuova occupazione, le nuove retribuzioni concorrerebbero gradualmente alla formazione del reddito familiare ai fini della prosecuzione del sostegno, raggiungendo il 100% soltanto dopo 12 mesi.
Le risorse per l’iniziativa proverrebbero dal riordino della spesa assistenziale, oggi abbastanza dissipata considerato il numero di prestazioni assistenziali erogate dall’Inps (8 diversi tipi) con differenti requisiti di base per il riconoscimento. In questo modo, tali sussidi vanno anche a favore del 30% della popolazione con redditi più elevati ai fini Isee (Indicatore della situazione economica equivalente), un parametro che misura la situazione economica del nucleo familiare ed è normalmente utilizzato dall’Inps per le prestazioni assistenziali.
Secondo le simulazioni Inps, la somma destinata alle famiglie più agiate ammonta a quasi 5 miliardi di euro, che sarebbe possibile rimodulare più equamente con una riduzione graduale per soglie di reddito lordo familiare superiori a 32 mila euro, coinvolgendo circa 230 mila famiglie, per la maggior parte provenienti dal 10% più ricco della popolazione.
Il secondo punto si focalizza su un piano di flessibilità sostenibile che – è bene sottolinearlo – è funzionale non tanto a prepensionare le persone, quanto a favorire una solidarietà generazionale che si è interrotta durante la crisi a scapito dei più giovani, dove si registrano i tassi di disoccupazione più elevati. La flessibilità in uscita, dunque, sarebbe consentita a fronte di una riduzione della quota della pensione calcolata con il sistema retributivo (previgente il 1996 e assai più generoso dell’attuale sistema contributivo) in base all’età e alla speranza di vita residua.
Così, ad esempio, in presenza di una carriera tipo regolare, cioè senza interruzioni dell’attività lavorativa, con 38 anni e 8 mesi di contribuzione e una retribuzione annua a fine carriera di 35.000 euro sarebbe possibile anticipare di 3 anni l’uscita dal mondo del lavoro a fronte di una riduzione massima dell’8,4% applicata sulla quota retributiva della pensione.
Anche in questo caso, le coperture provengono dal riordino della spesa previdenziale, fortemente asimmetrica quanto ai trattamenti pensionistici concessi a diverse categorie di pensionati, per i quali c’è scarsa correlazione tra rata pensionistica e contributi versati durante la vita lavorativa. Un intervento analogo viene proposto con riferimento ai vitalizi dei parlamentari e degli esponenti sindacali, eccezionalmente sottratti alle riforme previdenziali degli ultimi 25 anni.
Applicando ai titolari di pensioni medio-alte (superiori a 3.500 euro al mese) una correzione attuariale che ridetermina la quota retributiva della pensione in funzione del rapporto tra coefficienti di trasformazione alla decorrenza del pensionamento e quelli previsti dalla normale età pensionabile, si otterrebbero i risparmi necessari a finanziare la clausola di flessibilità. In base alle stime relative al 2015, si tratterebbe complessivamente di 326.560 pensioni, di importo medio mensile di 4.394 euro con una variazione media dell’importo della pensione per effetto del ricalcolo del 12,6% e un risparmio di oltre 2,3 miliardi a valere sul 2015.
A mio avviso, si tratta di una serie di misure, certamente discutibili, volte a rendere più sostenibile la spesa pensionistica con il contributo di chi in pensione sta per andare (flessibilità) o di chi vi è già con importi medio-alti, senza cioè scaricare il debito, per una volta, sulle generazioni future: proprio qui sta il pregio e, contestualmente, il limite delle proposte di Boeri, che, naturalmente, si scontrano con ragioni politiche da sempre inclini a tutelare chi gode già di certi diritti in luogo di chi li deve ancora acquisire.