È stato presentato, solo pochi giorni fa, al ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca,
il Rapporto annuale dell’Ocse “Education at a glance”, che analizza i sistemi di istruzione dei 34 Paesi membri. Gli indicatori previsti dal report sono, è bene ricordarlo, una guida essenziale per chi fa politiche in questo campo. Tuttavia, molte delle numerose delle sfide che il Rapporto propone all’Italia sono state, almeno secondo l’esecutivo, già raccolte attraverso le innovazioni approvate con la legge della “Buona Scuola”, e sono ora in piena fase di attuazione.
Gli elementi di riflessione, ovviamente, non mancano specialmente quando si tocca il delicato tema del rapporto tra laureati e mercato del lavoro. In Italia, infatti, come altrove, i laureati hanno redditi da lavoro più alti rispetto ai lavoratori con un livello d’istruzione inferiore. Tuttavia, l’Italia si distingue rispetto ai Paesi che registrano quote altrettanto piccole di laureati (ben lontane, insomma, dall’auspicato 40% di Europa 2020 per i 30-34enni).
Nei Paesi Ocse in genere si nota che a un minor numero di laureati corrispondono maggiori vantaggi salariali. Nel 2014, in Italia, dove solo il 17% degli adulti (25-64enni) aveva una laurea (una percentuale simile a quelle del Brasile, del Messico e della Turchia), non era ovviamente così. Nei paesi, infatti, simili al nostro, la differenza tra i redditi dei laureati e quelli degli adulti che hanno conseguito solo un diploma della scuola secondaria superiore come livello massimo d’istruzione è più alta rispetto alla media dell’Ocse, mentre in Italia i redditi rispettivi sono inferiori: 143% rispetto alla media Ocse del 160%.
Nel 2014, inoltre, solo il 62% dei laureati tra 25 e 34 anni era occupato in Italia, 5 punti percentuali in meno rispetto al medesimo tasso di occupazione del 2010. Questo è un livello paragonabile, ahimè, solo a quello della Grecia ed è il più basso tra i Paesi dell’Ocse (la cui media è dell’82%). L’Italia e la Repubblica Ceca sono, in questo quadro, i soli Paesi dell’Ocse dove il tasso di occupazione tra 25 e 34 anni è il più basso tra i laureati rispetto alle persone che hanno conseguito, come più alto titolo di studio, un diploma d’istruzione secondaria superiore.
Il tasso di occupazione è, poi, particolarmente basso per i 25-34enni con un livello d’istruzione terziaria, con genitori non laureati e che hanno meno probabilità di accedere a una rete di relazioni sociali estesa per trovare un lavoro. Mentre, in media, tra i paesi che nel 2012 hanno partecipato allo studio dell’Ocse sulle competenze degli adulti (Piaac), il tasso di occupazione dei diplomati dell’istruzione terziaria di prima generazione era dell’88% e prossimo al tasso di occupazione del 90% tra i figli di genitori laureati, in Italia per i laureati di prima generazione la differenza supera i 12 punti percentuali.
Viene il dubbio che, probabilmente, il Ministro Poletti non avesse letto questi dati quando, pochi giorni fa, ha sostenuto che laurearsi, in Italia, con 110 e lode a 28 anni non serve a un fico e che, alla fine, sia meglio prendere 97 a 21 anni. Sembra, infatti, che i pericolosi gufi dell’Ocse ci ricordino come il problema sia, ahimè, più ampio e complesso.
Probabilmente, ancora dopo quasi 40 anni, non aveva, insomma, ragione la madre di quell’illustre emiliano, molto amato dal Premier, per cui, almeno in Italia, un laureato vale più di un cantante.