Sulla necessità di licenziare i dipendenti pubblici che falsificano la timbratura dei cartellini affermata dal ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia, non si può che concordare. Si tratta di una violazione gravissima dei doveri d’ufficio, tanto più intollerabile perché posta in essere da servitori dello Stato. Appare, tuttavia, altrettanto indubbio che il medesimo titolare di Palazzo Vidoni, con buona parte del Governo, nell’affermare l’ovvia necessità di punire i dipendenti pubblici imbroglioni stia soprattutto tentando di intestarsi una campagna già vista e perseguita molto a fondo anni addietro da Renato Brunetta.
Il messaggio che sta riempiendo i media da quando sono emersi i fatti del comune di Sanremo è che occorre attendere l’attuazione della legge delega di riforma della Pa, la legge 124/2015, per poter riuscire in modo celere ad attivare procedimenti che consentano di licenziare i dipendenti infedeli. In effetti, la legge delega contiene l’indicazione al legislatore delegato di semplificare e velocizzare i procedimenti disciplinari. Filtra dalle indiscrezioni di stampa che sarebbe intenzione del Governo prevedere una durata massima di 100 giorni per giungere anche al licenziamento, nei casi previsti.
Quello che molti media non aggiungono è che già oggi e da ormai il 2009, da quando è entrata in vigore la riforma-Brunetta, nella Pa è possibile e doveroso licenziare per un elenco molto fitto di comportamenti giudicati infedeli, tra i quali è espressamente contemplato proprio l’alterazione della presenza in servizio. Non solo: il procedimento disciplinare, sempre per effetto della riforma-Brunetta, può e deve essere portato avanti indipendentemente dalla pendenza del processo penale e la sua durata massima, nel caso del licenziamento, è di 120 giorni.
Senz’altro 100 giorni sono meno di 120, ma affermare che oggi non sia possibile licenziare perché mancano le norme che consentano alle amministrazioni di allontanare dal servizio i dipendenti che non rispettino le regole minime imposte a qualsiasi lavoratore appare oggettivamente una forzatura. Ben venga se l’attuazione della legge delega per la riforma della Pa sarà capace di rendere ancor più lineare il percorso da seguire.
I problemi, tuttavia, ai fini dell’applicazione delle regole che già esistono o che esisteranno sono legati al noto fattore della responsabilità erariale. Laddove, infatti, un lavoratore licenziato ottenesse dal giudice del lavoro l’annullamento del licenziamento e il reintegro nel posto di lavoro, con condanna al risarcimento degli stipendi arretrati e della rivalutazione, il pagamento di queste somme sarebbe considerato come danno erariale, da recuperare a carico dell’autore del licenziamento.
Piuttosto che pensare solo alla continua modifica delle regole di disciplina del procedimento disciplinare, sarebbe invece necessario cercare di allineare davvero la figura del dirigente al datore di lavoro privato. Il quale non sopporta certo il rischio di una condanna da parte della Corte dei conti.
Si dovrebbe aprire, quindi, un ragionamento serio sull’applicabilità del Jobs Act, cioè delle regole privatistiche del lavoro, anche al pubblico impiego, con specifico riferimento alla riforma dell’articolo 18. Ma, anche in questo caso si assiste a un paradosso. Il testo unico del pubblico impiego, il d.lgs 165/2001, all’articolo 51, comma 2, prevede espressamente che al lavoro pubblico si estendano le norme dello Statuto dei lavoratori e ogni loro modifica e integrazione. È il Governo, sin dai tempi della riforma-Fornero, a considerare che l’articolo 18 dello Statuto, più volte riformato dal 2012, non sia applicabile alla Pa, nonostante la chiarissima e contraria previsione legislativa.
Se non si risolvono, allora, i nodi della responsabilità erariale e della definitiva e chiara armonizzazione della disciplina del lavoro pubblico rispetto a quella privata, resteranno comunque zone d’ombra che non faciliteranno l’applicazione delle semplici regole di fedeltà imposte dal contratto di lavoro subordinato, ma non per assenza di procedure disciplinari, bensì per confusione del quadro normativo nel suo complesso.