La caratteristica riformista delle scelte operate dal governo Renzi è stata quella di inserire, in tutti i disegni di riforma approvati, qualche norma immediatamente applicabile. Ciò ha favorito la rapida percezione da parte dei cittadini dell’efficacia complessiva del disegno riformatore. Non si tratta semplicemente dei famosi 80 euro restituiti in busta paga. Anche nel Jobs Act i contratti sono stati in tempi rapidi mutati e l’estensione delle tutele è stata fatta per oltre 300.000 lavoratori in pochi mesi. Il trattamento di disoccupazione e un rapporto diverso con i Centri per l’impiego sono stati subito varati. Il ritardo dei servizi al lavoro per la ricollocazione è dovuto alla lunga gestazione della nuova agenzia nazionale che deve coordinare i nuovi servizi con le regioni.
In molti altri casi questa rapida percezione non c’è stata. Nella riforma della buona scuola i soggetti coinvolti in un cambiamento immediato sono stati i docenti che sono stati immessi in ruolo, rompendo un lungo periodo di precariato di massa. Ma per le famiglie il salto di qualità si misurerà nel tempo. Per quanto riguarda la riforma della Pubblica amministrazione, si rischia di avere una percezione parziale di quanto si vuole riformarla profondamente. Pochi mesi fa era apparso chiaro che la riforma della Pa, abbinata con le decisioni del Jobs Act, avrebbe messo fine a un diverso trattamento dei lavoratori.
Per un lungo periodo, infatti, lo Statuto dei lavoratori, o in particolare l’articolo 18 sui licenziamenti, non aveva valore per i dipendenti della Pa. I primi ritocchi della riforma Fornero e poi il ridisegno di diritti e tutele operato dal Jobs Act con l’introduzione dei contratti a tutele crescenti avevano fatto dire che finalmente si chiudeva il periodo di trattamenti diversificati per lavoratori dipendenti delle aziende private e della Pa. Di fronte, però, a una prima sentenza che in una causa di lavoro ha preso atto che l’art. 18 ha valore anche per i pubblici dipendenti, il governo ha fatto sapere che entro fine anno chiarirà con una norma specifica che per i dipendenti pubblici valgono norme diverse.
Secondo molti giuristi del lavoro, considerare diverso il rapporto di lavoro in funzione delle caratteristiche, pubblico o privato, del datore di lavoro è incostituzionale. Sulla base di questo assunto ritengono che il governo può solo regolamentare percorsi di tutele che tengono conto della particolarità del pubblico dipendente, ma che non si possa intervenire sul principio generale introdotto con il Jobs Act. D’altro canto si sostiene che essendo i dipendenti pubblici selezionati e assunti attraverso un concorso, anche il percorso di licenziamento deve rispondere a criteri diversi da quanto previsto dai nuovi principi del Jobs Act che estendono gli indennizzi economici e restringono gli ambiti del reintegro nel posto di lavoro.
Se limitiamo la valutazione all’ambito giuridico, pure in questo caso di grande impatto, credo che si resti prigionieri di uno schema che non aiuta a valutare la Pa come settore economico che produce servizi per i cittadini. Oggi la Pa presenta un’elefantiasi e una staticità che non corrispondono alle esigenze di essere un’agenzia capace di operare in sintonia con i mutamenti economici in corso. L’occasione della riforma non può non prendere in considerazione l’obiettivo di mutarne il funzionamento.
È per questo che porre fine all’ultimo dualismo che caratterizza il nostro mercato del lavoro è importante. Così come si è operato per il personale scolastico, serve ragionare sui compiti dei dipendenti pubblici in funzione dei servizi che devono erogare i diversi comparti e metterli in condizione di operare con propri criteri di valutazione in termini di efficacia ed efficienza. Per la gran parte dei dipendenti pubblici è l’ambito del concorso di assunzione che va rivisto e quindi le regole successive.
Già oggi, con il superamento dei contratti a progetto e di collaborazione, molti uffici pubblici dovranno affrontare il tema di come sostituire le figure più efficienti, non inseribili in modo permanente, stante i vincoli di spesa pubblica, e senza gli strumenti contrattuali introdotti per il settore privato. La gran massa di precariato in attesa di “stabilizzazione” è nel settore della Pa e non certo presso le imprese private. La possibilità introdotta con i contratti a tutele crescenti andrebbe estesa con una riforma della Pa che veda affermarsi figure di direzione del personale e sistemi di valutazione dei servizi che portino a una trasparenza sia nelle assunzioni che nelle scelte di ristrutturazione.
L’assenza di mobilità cui ha portato il sistema attualmente in vigore tutela solo una forma anomala di distribuzione del reddito, ma non assicura una Pa efficiente e in grado di gestire fasi di trasformazione. Se guardiamo al caso delle ex province, almeno per i dati già disponibili, scopriamo che vi è stata la cancellazione di molti contratti a tempo o precari, la ricollocazione di molti dipendenti ai servizi originari indipendentemente dalla funzionalità del ruolo ricoperto, un eccesso di dipendenti in servizi ormai inutili. Ciò che non si vuole vedere è che proprio la Pa è fonte di un dualismo perverso. Alcuni con tutela assoluta del posto di lavoro indipendentemente dall’utilità del ruolo e alcuni senza nessuna tutela, nemmeno per una ricollocazione che valorizzi quanto appreso talvolta in molti anni di presenza nella Pa.
Vi sono due remore che bloccano la volontà di riformare profondamente il lavoro nella Pa. Da sempre ha retto uno scambio non di mercato fra tutela assoluta del posto di lavoro a vita e bassi incrementi salariali. In secondo luogo, si è ritenuto che il concorso pubblico garantisse contro assunzioni clientelari e la possibilità che con le tornate elettorali scattasse uno spoil system di massa. Dovremmo affrontare i due temi per quello che sono e introdurre limiti e vincoli perché ciò sia verificabile e sanzionabile.
Mantenere però un mercato del lavoro duale e inefficiente nella Pa per non affrontare i compiti e le fatiche di una riforma decisa della sua organizzazione dà forza solo alle componenti corporative che troveranno confronto in norme che tutelano il posto ma non promuovono il lavoro.